Agata Pinnelli: dove abita la storia, le Foibe, gli antri dell’oblio
La testimonianza di Maria Gabriella Macini Fazio.
venerdì 14 febbraio 2014
10.58
Le foibe? Geografia e storia su questo argomento non si sono ancora integrate sulle nostre enciclopedie e libri scolastici: il significato geografico "varietà di doline frequenti sull'altopiano del Carso, in Istria, Venezia Giulia" prevale sul significato storico "tombe di migliaia di italiani, vittime della pulizia etnica slava tra il 1943 e il 1947". Una tragedia negata su cui grava da più di mezzo secolo un assordante silenzio, eppure contemporanea ad altre tragedie ed altri massacri di cui giustamente si ricorda ogni dettaglio, si onorano le vittime, si condannano i carnefici.
Questo capitolo della nostra storia, che forse si vorrebbe cancellare per via delle responsabilità di cui non si vuol prendere coscienza, è una memoria che fatica ancora oggi a raccontarsi, a conoscersi con le sue luci e le sue ombre, a rivitalizzare con dignità il ricordo delle vittime nella memoria dei viventi che hanno pagato crudelmente il conto della pace di Parigi alla fine della 2a guerra mondiale. Nel 2004 il Parlamento italiano ha approvato l'istituzione di una "Giornata del ricordo" per le vittime delle foibe da celebrarsi ogni anno il 10 febbraio. Questa data è stata scelta perché ricorda il trattato di Parigi del 1947 alla conclusione della 2a guerra mondiale che sancì l'annessione dell'Istria, della Dalmazia e della Venezia Giulia alla Jugoslavia.
"… già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre nell'autunno del 1943, si intrecciarono giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento della presenza italiana da quella che era e cessò di essere la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947 e che assunse i contorni sinistri di una pulizia etnica."
È quanto pronunciò il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una di queste giornate del ricordo. Nonostante tutto, non se ne parla abbastanza, non se ne conoscono i fatti, le motivazioni, le responsabilità, insomma la verità fatta di verifiche, analisi storiche di documenti e di testimonianze storiografiche delle migliaia di esodati che non sono riusciti a dar voce con la forza del ricordo, benefica, ma nello stesso tempo dolorosa, al loro dramma, per mantenere viva quella identità che in qualità di esuli in patria, come si definirono che per sopravvivere dovevano dimenticare. L'oblio è l'alleato dell'ignoranza e della barbarie: bisogna conoscere, studiare, guardare il fondo dell'abisso in cui può cadere la storia umana, non ritrarsi dinanzi all'orrore, perché anche esso ci racconta chi siamo, illustra fin dove gli esseri umani possono spingersi, poiché su quella soglia l'inimmaginabile diventa realtà. Il diritto culturale alla memoria si coniuga alla necessità della memoria come dovere perché il silenzio, l'indifferenza offendono la fatica dolorosa del ricordo, impediscono la salvaguardia della propria identità, delle proprie radici, la solidarietà, il sentimento di unità del genere umano e della fratellanza che ne deriva. In una parola annientano la speranza del futuro.
A volte il presente per cause contingenti di interessi politici interni, internazionali, di ideologie intossica la storia, ipnotizza le coscienze, le strutture della nazione e dello Stato e il vuoto valoriale unitamente all'ignoranza prende il sopravvento sulla dignità e sulla coscienza facendoci considerare i fatti negativi, incidenti di percorso, estraniati dalle motivazioni: il male è banalizzato e si trasforma in tentazione ogni qualvolta appare impossibile alleviare la miseria politica, sociale ed economica in maniera degna dell'uomo.
[…]"Quando entrai nella famiglia di mio marito nato a Sala Consilina, provincia di Salerno, dove poi mi sono trasferita a vivere, la cosa che mi colpì fu il grande attaccamento per la propria terra. Paragonai la loro realtà alla mia e nonostante la nostra diversità mi accorsi di quanto fossero simili: anche la mia gente era legata alla propria terra e la famiglia per noi era un pilastro inattaccabile. La differenza stava nel fatto che noi eravamo cambiati e non riuscivo a capirne la ragione. In quel periodo iniziò il mio calvario mentale: volevo capire, scavare negli animi. Cominciai a fare domande ai miei genitori, a tutti i sopravvissuti e l'esodo mi venne incontro. Iniziai a leggere e documentarmi e da quelle letture, da quel filo conduttore cominciai a trarre linfa vitale per la mia curiosità. Pensavo che, avendo perso qualche passaggio della nostra storia, attraverso quelle pagine lo avrei recuperato, ma soprattutto potevo prendere coscienza di me, di noi tutti perché non ero certa che noi figli dell'esodo, avessimo piena coscienza della nostra identità e del ruolo che ci spettava […].
"""Quando morirono i miei genitori sono tornata a Novara al villaggio Dalmazia dove ero nata e vissuta per quaranta anni per sistemare alcune vicende burocratiche. Appurai che poche erano le persone della mia gioventù rimaste lì; feci un giro per le strade deserte e mi resi conto che non si sentiva parlare in fiumano. Decisi di non fare nemmeno un giro in centro perché non ne sentivo il bisogno, ma con mio marito stabilimmo che l'indomani saremmo partiti per Fiume. Qui tutto mi sembrava diverso dai luoghi che tante volte i miei genitori avevano descritto; nessuno parlava in italiano, anzi quando le persone si rendevano conto che noi eravamo italiani diventavano fredde e scostanti. Dal colloquio con una guida della comunità italiana emerse chiaramente la paura che la nostra comunità scomparisse: tutto era stato assorbito, così assorbito che di italiano stavano rimanendo soltanto pochi anziani e qualche libro. Rientrati in Italia ho tirato un sospiro di sollievo, ero a casa. Mi girai a guardare il confine: era libero, senza filo spinato e senza sbarre, ma io so che c'è un muro invisibile, fatto di tante piccole storie, di cose dette e non dette, di verità nascoste e verità negate, un muro i cui mattoni sono cementati con il sangue degli infoibati e le lacrime degli esuli. La visita a Fiume e tutte le letture sull'argomento mi hanno aiutato a dare un senso alle mie domande, ai miei dubbi, alle mie sensazioni. Quando nell'adolescenza mi chiedevo chi fossimo, non potevo saperlo, perché chi poteva raccontarlo non aveva voce, impegnato come era nella lotta alla sopravvivenza e chi invece avrebbe dovuto raccontarlo non solo a noi, ma a tutte le generazioni passate e future, non aveva alcun interesse a farlo. Così siamo cresciuti emarginati dalla storia, da ogni storia. Noi eravamo i profughi, gli usurpatori, coloro che rubavano il lavoro, l'aria, il cibo e nessuno aveva raccontato al mondo che noi eravamo degli italiani, che avevamo una casa, un lavoro, una terra e che vennero barbaramente trucidati per un disegno criminoso. I sopravvissuti, gli esuli cercarono rifugio tra le braccia di una madrepatria divenuta matrigna, così pagammo la nostra italianità non solo con la perdita dei beni, ma anche con la perdita dell'identità. Eravamo italiani ed avevamo scelto di rimanere tali, eravamo due volte italiani e abbiamo pagato per questo. Rappresentavamo una realtà scomoda. Quando togli ad un popolo l'identità, la voce e la dignità, ne prosciughi anche l'orgoglio, e noi avevamo perso tutto questo perché ci avevano silenziosamente fatto capire che dovevamo tacere. Ci avevano ghettizzati in quartieri ombra, cancellati dai libri di scuola e dalle cerimonie ufficiali, eravamo semplicemente dei poveri ai quali portare i pacchi a Natale. Per farci stare buoni ci diedero anche il lavoro facendolo passare per un atto di carità da parte del Governo: negli anni la situazione è peggiorata, non solo nessuno dei governanti ha fatto in modo che la nostra storia venisse a galla, ma ha addirittura cercato di strumentalizzarla con farse istituzionali. Quando paragonavo la comunità meridionale alla nostra, mi domandavo quale fosse la diversità che non riuscivo a capire; ora lo so: loro, nonostante l'emigrazione, le umiliazioni, la sofferenza hanno tenuto la testa alta, perché gli veniva, sì, negato il pane e la dignità di un lavoro a casa propria, ma nessuno ha negato che esistessero a differenza di quanto è avvenuto nel nostro caso: non dovevamo esistere. Con il senno di poi ripenso agli occhi dei nostri vecchi seduti a guardare il vuoto, allo sciame disordinato dei nostri padri in sella alle sgangherate biciclette per raggiungere le fabbriche, alla frenetica corsa delle nostre donne per raggiungere il posto di lavoro, a noi bambini intenti a giocare sui marciapiedi con due palline colorate o qualche nocciolo di pesca, alle maestre che ci sgridavano quando parlavamo in fiumano, alla gente che quando ci sentiva parlare si scostava, ai matrimoni mancati perché la sposa o lo sposo erano profughi, e in tutto questo vedo lo stesso disegno che Tito perpetrò nei nostri confronti sessant'anni fa: l'eliminazione. Così ci hanno chiusi tra mura di silenzio e noi figli dell'esodo abbiamo avuto vergogna delle nostre radici, non perché tali, ma semplicemente perché pensavamo di essere il frutto di un tradimento, così ci siamo lasciati alle spalle la memoria. Ebbene: mi sono voltata a guardare il passato; dalla storia mi sono fatta condurre per mano sui sentieri dell'esodo e dalla storia ho ripreso la mia memoria perché la memoria è l'unica, vera radice del futuro!"""
È la testimonianza accorata e fiera insieme di Maria Gabriella Macini Fazio, figlia di genitori fiumani giunti in Italia sulla scia dell'esodo che coinvolse migliaia di italiani, con cui chiude il suo romanzo "Le radici del futuro" in parte autobiografico. È chiaro e coinvolgente l'appello della scrittrice a riempire quel colpevole vuoto di memoria della nostra storia per far sì che non si ripetano quei disegni politici nazionali e/o internazionali funesti che in nome dello spirito di dominio, delle logiche militari, delle pulsioni nazionalistiche, nonché delle ideologie neghino il diritto inviolabile all'esistenza di ogni uomo perché non è tollerabile il tentativo di giustificare quella ferocia immane che fu l'assassinio di massa.
Agata Pinnelli
Questo capitolo della nostra storia, che forse si vorrebbe cancellare per via delle responsabilità di cui non si vuol prendere coscienza, è una memoria che fatica ancora oggi a raccontarsi, a conoscersi con le sue luci e le sue ombre, a rivitalizzare con dignità il ricordo delle vittime nella memoria dei viventi che hanno pagato crudelmente il conto della pace di Parigi alla fine della 2a guerra mondiale. Nel 2004 il Parlamento italiano ha approvato l'istituzione di una "Giornata del ricordo" per le vittime delle foibe da celebrarsi ogni anno il 10 febbraio. Questa data è stata scelta perché ricorda il trattato di Parigi del 1947 alla conclusione della 2a guerra mondiale che sancì l'annessione dell'Istria, della Dalmazia e della Venezia Giulia alla Jugoslavia.
"… già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre nell'autunno del 1943, si intrecciarono giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento della presenza italiana da quella che era e cessò di essere la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947 e che assunse i contorni sinistri di una pulizia etnica."
È quanto pronunciò il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una di queste giornate del ricordo. Nonostante tutto, non se ne parla abbastanza, non se ne conoscono i fatti, le motivazioni, le responsabilità, insomma la verità fatta di verifiche, analisi storiche di documenti e di testimonianze storiografiche delle migliaia di esodati che non sono riusciti a dar voce con la forza del ricordo, benefica, ma nello stesso tempo dolorosa, al loro dramma, per mantenere viva quella identità che in qualità di esuli in patria, come si definirono che per sopravvivere dovevano dimenticare. L'oblio è l'alleato dell'ignoranza e della barbarie: bisogna conoscere, studiare, guardare il fondo dell'abisso in cui può cadere la storia umana, non ritrarsi dinanzi all'orrore, perché anche esso ci racconta chi siamo, illustra fin dove gli esseri umani possono spingersi, poiché su quella soglia l'inimmaginabile diventa realtà. Il diritto culturale alla memoria si coniuga alla necessità della memoria come dovere perché il silenzio, l'indifferenza offendono la fatica dolorosa del ricordo, impediscono la salvaguardia della propria identità, delle proprie radici, la solidarietà, il sentimento di unità del genere umano e della fratellanza che ne deriva. In una parola annientano la speranza del futuro.
A volte il presente per cause contingenti di interessi politici interni, internazionali, di ideologie intossica la storia, ipnotizza le coscienze, le strutture della nazione e dello Stato e il vuoto valoriale unitamente all'ignoranza prende il sopravvento sulla dignità e sulla coscienza facendoci considerare i fatti negativi, incidenti di percorso, estraniati dalle motivazioni: il male è banalizzato e si trasforma in tentazione ogni qualvolta appare impossibile alleviare la miseria politica, sociale ed economica in maniera degna dell'uomo.
[…]"Quando entrai nella famiglia di mio marito nato a Sala Consilina, provincia di Salerno, dove poi mi sono trasferita a vivere, la cosa che mi colpì fu il grande attaccamento per la propria terra. Paragonai la loro realtà alla mia e nonostante la nostra diversità mi accorsi di quanto fossero simili: anche la mia gente era legata alla propria terra e la famiglia per noi era un pilastro inattaccabile. La differenza stava nel fatto che noi eravamo cambiati e non riuscivo a capirne la ragione. In quel periodo iniziò il mio calvario mentale: volevo capire, scavare negli animi. Cominciai a fare domande ai miei genitori, a tutti i sopravvissuti e l'esodo mi venne incontro. Iniziai a leggere e documentarmi e da quelle letture, da quel filo conduttore cominciai a trarre linfa vitale per la mia curiosità. Pensavo che, avendo perso qualche passaggio della nostra storia, attraverso quelle pagine lo avrei recuperato, ma soprattutto potevo prendere coscienza di me, di noi tutti perché non ero certa che noi figli dell'esodo, avessimo piena coscienza della nostra identità e del ruolo che ci spettava […].
"""Quando morirono i miei genitori sono tornata a Novara al villaggio Dalmazia dove ero nata e vissuta per quaranta anni per sistemare alcune vicende burocratiche. Appurai che poche erano le persone della mia gioventù rimaste lì; feci un giro per le strade deserte e mi resi conto che non si sentiva parlare in fiumano. Decisi di non fare nemmeno un giro in centro perché non ne sentivo il bisogno, ma con mio marito stabilimmo che l'indomani saremmo partiti per Fiume. Qui tutto mi sembrava diverso dai luoghi che tante volte i miei genitori avevano descritto; nessuno parlava in italiano, anzi quando le persone si rendevano conto che noi eravamo italiani diventavano fredde e scostanti. Dal colloquio con una guida della comunità italiana emerse chiaramente la paura che la nostra comunità scomparisse: tutto era stato assorbito, così assorbito che di italiano stavano rimanendo soltanto pochi anziani e qualche libro. Rientrati in Italia ho tirato un sospiro di sollievo, ero a casa. Mi girai a guardare il confine: era libero, senza filo spinato e senza sbarre, ma io so che c'è un muro invisibile, fatto di tante piccole storie, di cose dette e non dette, di verità nascoste e verità negate, un muro i cui mattoni sono cementati con il sangue degli infoibati e le lacrime degli esuli. La visita a Fiume e tutte le letture sull'argomento mi hanno aiutato a dare un senso alle mie domande, ai miei dubbi, alle mie sensazioni. Quando nell'adolescenza mi chiedevo chi fossimo, non potevo saperlo, perché chi poteva raccontarlo non aveva voce, impegnato come era nella lotta alla sopravvivenza e chi invece avrebbe dovuto raccontarlo non solo a noi, ma a tutte le generazioni passate e future, non aveva alcun interesse a farlo. Così siamo cresciuti emarginati dalla storia, da ogni storia. Noi eravamo i profughi, gli usurpatori, coloro che rubavano il lavoro, l'aria, il cibo e nessuno aveva raccontato al mondo che noi eravamo degli italiani, che avevamo una casa, un lavoro, una terra e che vennero barbaramente trucidati per un disegno criminoso. I sopravvissuti, gli esuli cercarono rifugio tra le braccia di una madrepatria divenuta matrigna, così pagammo la nostra italianità non solo con la perdita dei beni, ma anche con la perdita dell'identità. Eravamo italiani ed avevamo scelto di rimanere tali, eravamo due volte italiani e abbiamo pagato per questo. Rappresentavamo una realtà scomoda. Quando togli ad un popolo l'identità, la voce e la dignità, ne prosciughi anche l'orgoglio, e noi avevamo perso tutto questo perché ci avevano silenziosamente fatto capire che dovevamo tacere. Ci avevano ghettizzati in quartieri ombra, cancellati dai libri di scuola e dalle cerimonie ufficiali, eravamo semplicemente dei poveri ai quali portare i pacchi a Natale. Per farci stare buoni ci diedero anche il lavoro facendolo passare per un atto di carità da parte del Governo: negli anni la situazione è peggiorata, non solo nessuno dei governanti ha fatto in modo che la nostra storia venisse a galla, ma ha addirittura cercato di strumentalizzarla con farse istituzionali. Quando paragonavo la comunità meridionale alla nostra, mi domandavo quale fosse la diversità che non riuscivo a capire; ora lo so: loro, nonostante l'emigrazione, le umiliazioni, la sofferenza hanno tenuto la testa alta, perché gli veniva, sì, negato il pane e la dignità di un lavoro a casa propria, ma nessuno ha negato che esistessero a differenza di quanto è avvenuto nel nostro caso: non dovevamo esistere. Con il senno di poi ripenso agli occhi dei nostri vecchi seduti a guardare il vuoto, allo sciame disordinato dei nostri padri in sella alle sgangherate biciclette per raggiungere le fabbriche, alla frenetica corsa delle nostre donne per raggiungere il posto di lavoro, a noi bambini intenti a giocare sui marciapiedi con due palline colorate o qualche nocciolo di pesca, alle maestre che ci sgridavano quando parlavamo in fiumano, alla gente che quando ci sentiva parlare si scostava, ai matrimoni mancati perché la sposa o lo sposo erano profughi, e in tutto questo vedo lo stesso disegno che Tito perpetrò nei nostri confronti sessant'anni fa: l'eliminazione. Così ci hanno chiusi tra mura di silenzio e noi figli dell'esodo abbiamo avuto vergogna delle nostre radici, non perché tali, ma semplicemente perché pensavamo di essere il frutto di un tradimento, così ci siamo lasciati alle spalle la memoria. Ebbene: mi sono voltata a guardare il passato; dalla storia mi sono fatta condurre per mano sui sentieri dell'esodo e dalla storia ho ripreso la mia memoria perché la memoria è l'unica, vera radice del futuro!"""
È la testimonianza accorata e fiera insieme di Maria Gabriella Macini Fazio, figlia di genitori fiumani giunti in Italia sulla scia dell'esodo che coinvolse migliaia di italiani, con cui chiude il suo romanzo "Le radici del futuro" in parte autobiografico. È chiaro e coinvolgente l'appello della scrittrice a riempire quel colpevole vuoto di memoria della nostra storia per far sì che non si ripetano quei disegni politici nazionali e/o internazionali funesti che in nome dello spirito di dominio, delle logiche militari, delle pulsioni nazionalistiche, nonché delle ideologie neghino il diritto inviolabile all'esistenza di ogni uomo perché non è tollerabile il tentativo di giustificare quella ferocia immane che fu l'assassinio di massa.
Agata Pinnelli