L'Arcidiocesi replica alla lettera di Arcigay Bat

A seguito della lettera pervenuta. Giunge la replica dell'Ufficio Stampa

lunedì 12 agosto 2013 10.59
A seguito della lettera pervenuta i primi di agosto all'Ufficio Stampa dell'Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, firmata da Marcello Filograsso, Ufficio Stampa Arcigay Bat, e da M. Antolini, giunge la replica dell'Ufficio Stampa, che riportiamo integralmente.

«Viene subito da porre in primo piano tre punti fermi, dal carattere prioritario e fondamentale, che si ritrovano nella stessa missiva, su cui non si può non essere d'accordo. Il primo è rappresentato dal comandamento "Ama il prossimo tuo come te stesso", ripreso nella lettera, che, concordiamo anche noi, è "un bellissimo regalo che Gesù Cristo ha lasciato all'umanità, un comandamento universale dell'amore". E' ciò perché ogni uomo, secondo l'insegnamento biblico, trova la propria origine remota in Dio ("l'uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio"). Da sempre il magistero ha ripetuto questa verità; come tutti gli autori cristiani, piccoli o grandi che siano, con discorsi, immagini, metafore diversi, hanno affermato e affermano la stessa cosa. Pertanto - e così passiamo al secondo punto fermo - l'uomo, ogni uomo è valore, è/ha dignità non solo per il fatto che esiste, ma anche perché porta con sé questa sua origine divina, quasi un "imprinting ontologico", come qualche giorno si esprimeva il teologo Mauro Cozzoli. Una dignità che permane, nonostante tutto, al di là delle espressioni culturali, etniche, sociologiche, religiose, ed anche sessuali.

Per la Chiesa ogni persona è/ha dignità, valore, è al secondo posto, dopo Dio, nella scala gerarchica: dal concepito fino all'anziano che sta lasciando lo scenario del mondo. E, poiché, questo è il tema di cui stiamo parlando, anche la persona omosessuale è/ha dignità. Così, a proposito, si esprimeva la redazione del periodico diocesano "In Comunione", qualche giorno fa: "Ogni discorso sull'omosessualità deve ruotare attorno ad un punto fermo: quello della dignità della persona omosessuale, che non va per niente discriminata, additata, stigmatizzata. Condanniamo ogni episodio di insulto, derisione nei confronti delle persone di qualsiasi orientamento sessuale" (4/2013, p. 2). E ciò rappresenta un'acquisizione definitiva della Chiesa che, tanto per fare un esempio, già si espresse in questi termini in un documento del 1986 della Congregazione per la dottrina della fede dal titolo "Cura pastorale delle persone omosessuali". E' vero, molte volte la realtà è diversa, e la cronaca lo conferma! Verso omosessuali, transessuali, bisessuali si registrano pregiudizi e persino episodi di violenza. L'ultimo è del quattordicenne suicidatosi a Roma, vittima degli insulti degli amici.

La Chiesa vigila su tutto questo e svolge la sua funzione di formazione delle coscienze al rispetto di ogni persona: lo fa nella sua predicazione, lo fa nelle aule di catechismo, negli oratori, accogliendo tutti. Certo è opportuno pervenire ad una legge contro l'omofobia e la transfobia. Che, per quanto mi riguarda, dovrebbe essere preceduta da un maggiore tempo di riflessione ad ampio spettro per meglio definire il "reato di omofobia". Il timore, in verità, è che venga ferito il diritto fondamentale alla libera espressione della propria opinione (non all'insulto o derisione, che condanniamo), il diritto a poter parlare di omosessualità, quando ciò venga fatto senza alcuna intenzione evidente di odio e di violenza contro di essi. Riporto, a proposito, quanto giorni fa si leggeva in un editoriale, a firma di Vincenzo Rini, direttore de "La Vita Cattolica" (Cremona): "potrebbe persino accadere che i genitori vengano perseguiti in quanto colpevoli di omofobia qualora insegnino ai figli che l'essere maschio o femmina è un dato originario. E di conseguenza, amore e matrimonio sono riferibili unicamente a persone di sesso diverso. Questo varrebbe anche per i sacerdoti, i quali, insegnando ai giovani che Dio creò l'uomo e la donna, maschio e femmina, indicando loro la strada dell'unione tra i due diversi sessi come unica via per realizzare il matrimonio e la famiglia, potrebbero essere denunciati per propaganda omofoba. La Chiesa stessa, rifiutando di celebrare matrimoni tra persone dello stesso sesso, risulterebbe omofoba e, quindi, fuori legge".

Non vorrei altresì che, in maniera soft, si arrivasse ad una rimozione della omosessualità come oggetto di discorso, di studio, di approfondimento, come questione antropologica, come avviene con buona pace di tutti per tante altre dimensioni dell'uomo e della donna. Nelle parole di Papa Francesco ("Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?), a cui si fa riferimento nella lettera, troviamo espressa l'ansia della Chiesa chiamata ad incontrare e ad ascoltare tutti, anche i gay, che, se battezzati, fanno parte della comunità ecclesiale e possono ricevere i sacramenti. La condizione che si richiede è l'osservanza della norma morale, come per ciascun credente. E' il Papa stesso, a proposito, a richiamare il Catechismo della Chiesa Cattolica. Ma, come dicevamo nel citato editoriale di "In Comunione", la riflessione con possibili prese di distanza comincia quando ci si pone sul piano della "teoria del genere" che sostiene che il genere è semplicemente quello in cui un individuo si identifica, o meglio decide di identificarsi. Tesi questa un po' diffusa ovunque, bene supportata da tanti gruppi e proficuamente rappresentata nei luoghi di potere (qualcuno li equipara a lobby, proprio quelle che per Papa Francesco fanno problema) con la finalità di mettere sullo stesso piano nuove diverse forme di unione rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio tra l'uomo e la donna. Quest'ultima poggia su due elementi, entrambi complementari e compresenti: l'affettività e la generatività. Mi tornano ora alla mente le significative parole di Giorgio Gaber in Secondo me la donna: "L'universo sa soltanto che senza due corpi differenti e due pensieri differenti non c'è futuro". E il futuro, garantito dalle nuove generazioni, rappresenta quel bene comune che uno stato deve perseguire come imperativo categorico sostenendo ciò che, con grande preveggenza i padri costituzionali hanno voluto sancire nella Costituzione negli articoli 29,30, 31. Se nell'articolo 29 lo Stato "riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio", è nel 31 che "La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo".

Equiparare la famiglia fondata sul matrimonio con altre forme di unione significa che lo Stato esprime indifferenza e disinteresse verso la prima che, meglio e più compiutamente delle altre, persegue quel bene comune che deve stargli a cuore come finalità prioritaria. Certo, ci si deve fare attenti ai bisogni e ai diritti individuali di chi vive altre forme di unione, forse già in larga misura tutelati dall'attuale ordinamento della Stato italiano.

Immagino, ora, le obiezioni e le controdeduzioni a quanto precede: è giusto che sia così; la ricerca della verità è qualcosa di arduo, che non si esaurisce mai, che richiede costante attenzione e permanente spirito di ricerca. Pertanto, e qui arrivo al terzo punto fermo, ha senso e ragionevolezza che, come è auspicato nella lettera, ci si incontri, si dialoghi e ci si confronti. Non mancheranno le occasioni!

In ciò siamo spinti dagli indicazioni pastorali del nostro Arcivescovo che, con il Sinodo Diocesano, in via di svolgimento, da tempo chiede alla comunità ecclesiale il dialogo con tutti perché si diffonda sempre più lo spirito della comunione e del servizio o, per dirla in altre parole, la "cultura della conoscenza e della pace».