Le invenzioni del linguaggio. L’umano e il suo enigma
Linguistica, neurolinguistica e poesia alla scoperta dell’umano nel linguaggio
domenica 28 agosto 2022
19.45
La traduzione come terra d'incontro, il mistero di una poesia che stupisce anche chi la compone, il fascino del cervello umano, "carne che si fa verbo". Sono molte le suggestioni che il linguaggio e la sua centralità in tutto ciò che è umano continua ad offrire. Al XLIII Meeting di Rimini, linguistica, neuroscienze e poesia si sono messe in dialogo alla ri-cerca dell'umano. Protagonisti del confronto "Le invenzioni del linguaggio. L'umano e il suo enigma" il linguista Stefano Arduini, lo scrittore e neurolinguista Andrea Moro e il poeta Davide Rondoni. Ha introdotto Monica Scholz-Zappa, docente di Scienze Linguistiche e Culturali all'Università Albert-Ludwig di Friburgo in Brisgovia. Una discussione originata dai paradossi che scaturiscono dalla traduzione di testi da una lingua all'altra.
«Humboldt diceva che il modo migliore per capire che cos'è una lingua è considerarla un frammento del linguaggio universale», ha osservato Stefano Arduini, professore ordinario di Linguistica all'Università di Roma Link Campus. «Ogni lingua è una faccia di un prisma che mostra il mondo con una sfumatura diversa». Tradurre come risposta al desiderio di relazione: «Ci sono tante lingue, ma in quella diversità gli uomini trovano una possibilità di completamento». Un incontro generativo, che fa nascere qualcosa di nuovo: «Solo quando siamo esposti all'estraneità a cui le altre lingue ci espongono riusciamo a comprendere che quell'estraneità può essere una ricchezza. Solo in quel momento andiamo oltre la nostra finitezza». Né negazione dell'altro, né assimilazione, ma comprensione del destino comune che condividiamo con l'Altro: «Siamo simili perché ognuno di noi è straniero. Tradurre è necessario perché organizza quell'ospitalità linguistica che dà senso a tutte le altre ospitalità».
Con Andrea Moro, neurolinguista e scrittore, professore di linguistica generale, Scuola Universitaria Superiore IUSS, Pavia, si è invece partiti dall'ipotesi di "linguaggi impossibili" per capire ciò che è comune a tutti i linguaggi. «La sintassi è propria solo dell'uomo. Gli esseri umani infatti hanno dizionari di parole con le quali costruire frasi sempre nuove, mentre gli animali hanno solo dizionari di frasi fatte». I linguaggi umani funzionano grazie a "scatole di parole" potenzialmente infinite, mentre i linguaggi impossibili, come dimostrato dalle indagini con le risonanze magnetiche, sono impossibili non per il frutto «di una convenzione cul-turale di natura arbitraria o un programma imposto al cervello: le lingue sono espressione del cervello». E dunque, se tutte le lingue sono prodotto del cervello, non ha senso chi presume esistano lingue – o peggio ancora, razze – migliori delle altre. «Mi chiedevo come sarebbe stata l'umanità se ci fosse stata una lingua sola. E mi sono detto che Babele non è sta-ta una condanna, ma un dono, perché ha creato comunità ridotte e maneggevoli».
E infine, lo sguardo della poesia, che vede nella parola l'inseguimento di ciò che si dice. Una tensione che coincide con l'amore: «Siamo fatti a metà», ha osservato il poeta Davide Rondoni. «Nella nostra metà c'è la nostalgia di altro il cui il linguaggio è continua energia. Ed è un'energia che ci sorprende, come la poesia è sorprendente per l'autore stesso: non sai quello che dici». E dunque il linguaggio – e i linguaggi diversi – ci fanno riscoprire stranieri. E non solo di patrie e paesi: «Siamo stranieri della nostalgia che ci abita. Noi poeti componiamo, non creiamo niente. La nostalgia è qualcosa che ci genera. Per Giussani la tensione del linguaggio era l'inseguimento dell'oggetto di cui parlava, una persona che ti convince per la sua parola non è perché sa già ciò di cui parla, ma perché lo insegue. La cosa più straordinaria», ha concluso Rondoni, «è la trasmissione del linguaggio da un uomo all'altro, forse il più grande gesto d'amore».
«Humboldt diceva che il modo migliore per capire che cos'è una lingua è considerarla un frammento del linguaggio universale», ha osservato Stefano Arduini, professore ordinario di Linguistica all'Università di Roma Link Campus. «Ogni lingua è una faccia di un prisma che mostra il mondo con una sfumatura diversa». Tradurre come risposta al desiderio di relazione: «Ci sono tante lingue, ma in quella diversità gli uomini trovano una possibilità di completamento». Un incontro generativo, che fa nascere qualcosa di nuovo: «Solo quando siamo esposti all'estraneità a cui le altre lingue ci espongono riusciamo a comprendere che quell'estraneità può essere una ricchezza. Solo in quel momento andiamo oltre la nostra finitezza». Né negazione dell'altro, né assimilazione, ma comprensione del destino comune che condividiamo con l'Altro: «Siamo simili perché ognuno di noi è straniero. Tradurre è necessario perché organizza quell'ospitalità linguistica che dà senso a tutte le altre ospitalità».
Con Andrea Moro, neurolinguista e scrittore, professore di linguistica generale, Scuola Universitaria Superiore IUSS, Pavia, si è invece partiti dall'ipotesi di "linguaggi impossibili" per capire ciò che è comune a tutti i linguaggi. «La sintassi è propria solo dell'uomo. Gli esseri umani infatti hanno dizionari di parole con le quali costruire frasi sempre nuove, mentre gli animali hanno solo dizionari di frasi fatte». I linguaggi umani funzionano grazie a "scatole di parole" potenzialmente infinite, mentre i linguaggi impossibili, come dimostrato dalle indagini con le risonanze magnetiche, sono impossibili non per il frutto «di una convenzione cul-turale di natura arbitraria o un programma imposto al cervello: le lingue sono espressione del cervello». E dunque, se tutte le lingue sono prodotto del cervello, non ha senso chi presume esistano lingue – o peggio ancora, razze – migliori delle altre. «Mi chiedevo come sarebbe stata l'umanità se ci fosse stata una lingua sola. E mi sono detto che Babele non è sta-ta una condanna, ma un dono, perché ha creato comunità ridotte e maneggevoli».
E infine, lo sguardo della poesia, che vede nella parola l'inseguimento di ciò che si dice. Una tensione che coincide con l'amore: «Siamo fatti a metà», ha osservato il poeta Davide Rondoni. «Nella nostra metà c'è la nostalgia di altro il cui il linguaggio è continua energia. Ed è un'energia che ci sorprende, come la poesia è sorprendente per l'autore stesso: non sai quello che dici». E dunque il linguaggio – e i linguaggi diversi – ci fanno riscoprire stranieri. E non solo di patrie e paesi: «Siamo stranieri della nostalgia che ci abita. Noi poeti componiamo, non creiamo niente. La nostalgia è qualcosa che ci genera. Per Giussani la tensione del linguaggio era l'inseguimento dell'oggetto di cui parlava, una persona che ti convince per la sua parola non è perché sa già ciò di cui parla, ma perché lo insegue. La cosa più straordinaria», ha concluso Rondoni, «è la trasmissione del linguaggio da un uomo all'altro, forse il più grande gesto d'amore».