Non sono i terroristi ad aver scritto la storia d'Italia ma le vittime e il popolo italiano

L'intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella alla cerimonia di commemorazione

martedì 9 maggio 2023 20.07
Il 9 maggio si celebra il "Giorno della Memoria" dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice. La giornata è cominciata con la deposizione da parte del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di una corona di fiori in via Caetani a Roma davanti alla lapide che ricorda il sacrificio dell'On. Aldo Moro. Si è quindi svolta, al Palazzo del Quirinale, la cerimonia di commemorazione condotta da Valentina Cervi e aperta da un filmato realizzato da Rai Storia. Sono intervenuti la giornalista e saggista Benedetta Tobagi e lo storico Guido Formigoni. La conduttrice Valentina Cervi ha letto alcuni brani tratti da interventi e testimonianze di Walter Tobagi, Marisa Russo, Giampaolo Mattei, Eugenio Occorsio e Aldo Moro.

La cerimonia si è conclusa con l'intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: "Celebriamo sempre con grande emozione, ogni anno, questa giornata. Per far memoria della lunga scia di attentati, stragi, delitti politici che ha insanguinato la storia della nostra Repubblica; e che ha trovato il suo momento di ricordo nella ricorrenza dell'assassinio di Aldo Moro, di cui ricorre oggi il 45° anniversario. L'Italia, una giovane Repubblica, che si è trovata a fare i conti con il terrorismo politico; con le stragi, talvolta compiute con la complicità di uomini da cui lo Stato e i cittadini si attendevano difesa; con la violenza politica, tra giovani di opposte fazioni che respiravano l'aria avvelenata di scontro ideologico. Le cifre di quei tragici eventi sono impressionanti: quasi quattrocento vittime per il terrorismo interno, ai quali vanno aggiunti i caduti per il più recente fenomeno del terrorismo internazionale. Tra di loro appartenenti alle Forze dell'ordine, magistrati, militari; uomini politici e attivisti; manager e sindacalisti; giornalisti; ignari passanti, tra cui donne e bambini. Tutti erano in pericolo, nessuno venne risparmiato. Ciascuno di loro fa parte, a pieno titolo, della storia repubblicana. La ferita inferta ai familiari dei caduti è una ferita inferta al corpo della Repubblica, fondata sulla nostra Costituzione. Una Costituzione che parla di libertà, di democrazia, di responsabilità, di solidarietà, di rispetto di ogni persona. I terroristi e i loro complici - così come i cattivi maestri che hanno sostenuto e propagandato la violenza politica – hanno attentato alla vita di donne e uomini, con l'obiettivo dichiarato di scardinare l'ordinamento democratico. E' davvero significativa la lettura che abbiamo appena ascoltato del brano di Aldo Moro, di neppure un anno prima del suo rapimento, e dell'assassinio degli uomini che lo scortavano: Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Seguì la sua barbara uccisione, che segna il culmine della sfida brigatista allo Stato e, nel contempo, l'inizio della parabola declinante del terrorismo rosso.

Lo stesso Moro, dopo l'uccisione a Genova, da parte delle BR, del magistrato Francesco Coco, nel giugno del 1976, aveva sintetizzato in modo inequivoco l'attacco ai valori repubblicani: «Indirizzandosi contro lo Stato, ordinatore e garante, la violenza colpisce tutti e mette in forse la nostra libertà». E, aggiungeva, in modo profetico: «La risposta non è solo nell'impegno delle autorità competenti nel chiarire la situazione e nel fare giustizia, ma anche nell'unanime reazione morale e politica del Paese e nella compostezza e fermezza con le quali il popolo italiano e le forze politiche sapranno vivere queste ore tristi e difficili della nostra vita nazionale». È stata – come Moro aveva auspicato - la reazione morale del popolo italiano a fare la differenza, nella lotta ai terrorismi e all'eversione, facendo prevalere la Repubblica e la sua legalità. Un popolo che, nella sua stragrande maggioranza, ha respinto le nefaste velleità di chi avrebbe voluto trascinare l'Italia fuori dal novero delle nazioni libere e democratiche. Un popolo che, memore dei disastri della guerra, ha rifiutato con decisione l'uso della violenza come arma per la lotta politica. E che si è stretto attorno alle istituzioni, avvertite come presidio di libertà, di diritti e di democrazia. Lottando ovunque, nel posto di lavoro, all'interno della società. Scendendo persino in piazza per manifestarne la difesa. Lo Stato, le forze politiche e sociali, hanno saputo reagire – nonostante lo smarrimento iniziale - con coraggio e con decisione alla sfida dei terrorismi. Una guerra che è stata vinta – è bene sottolinearlo, qui e ovunque – combattendo sempre sul terreno della legalità costituzionale, senza mai cedere alle sirene di chi proponeva soluzioni drastiche, da regime autoritario. Affidandosi invece al diritto e all'amministrazione della giustizia per proteggere la nostra comunità. Rifiutando di porsi al di fuori della natura democratica della nostra Repubblica.

Autorità, cari familiari, si è molto parlato negli ultimi decenni dei terrorismi e dei terroristi. Della loro vita, dei loro complici, delle loro presunte ideologie, delle cause che han fatto da base alla loro scelta di lotta armata. Delle gravi deviazioni compiute da elementi dello Stato, e per le quali avvertiamo tuttora l'esigenza, pressante, di conoscere la piena verità. Su questi argomenti esistono molti studi, numerose pubblicazioni, tante trasmissioni televisive, anche di interesse e pregio. Meno si è, invece, scritto e parlato della reazione unanime del popolo italiano. Meno dei servitori dello Stato, che hanno posto a rischio la propria vita per combattere violenza ed eversione. Meno di chi, nelle fabbriche, nelle università, nei vari luoghi di lavoro, ha opposto un no, fermo e deciso, a chi voleva ribaltare le regole democratiche. Ancor meno si è parlato del dolore, indicibile e irrecuperabile, delle famiglie a cui la lotta armata o i vili attentati hanno strappato un coniuge, un figlio, un genitore, un fratello o una sorella. Eppure sono state queste persone, non i terroristi, a fare la storia d'Italia. A scriverne la parte decisiva e più salda. A esprimere l'autentico animo della nostra società e non la sua patologia. A costituire un patrimonio collettivo di memoria e di esempio per tutte le generazioni. Anche questi uomini e queste donne vuole ricordare oggi la Repubblica, in questa giornata dedicata alle vittime dell'eversione e del terrorismo. Desidero, pertanto, fare espressa memoria di alcune vittime, delle quali ricorrono anniversari significativi. Vi sono, tra questi, nomi noti e meno noti. Ma che dimostrano, tutti insieme, quanto sfrontata e minacciosa sia stata la sfida recata allo Stato e alla convivenza civile da parte della violenza ammantata da ideologia.

Ricorre quest'anno il cinquantesimo anniversario della morte dell'agente di polizia Antonio Marino, di appena 22 anni, già ricordato da Benedetta Tobagi, ucciso con una bomba a mano a Milano da appartenenti al gruppo neo-fascista "la Fenice". Nello stesso 1973 morirono, bruciati vivi nel rogo di Primavalle, Stefano e Virgilio Mattei, di 22 anni il primo, ancora un bambino il secondo, figli di un esponente del Movimento Sociale Italiano, alla cui casa fu appiccato il fuoco da esponenti di Potere Operaio. A maggio dello stesso anno, avvenne la strage davanti alla Questura di Milano, che costò la vita a Felicia Bartolozzi, di 60 anni; a Gabriella Bortolon, di 23 anni; a Federico Masarin di 30; a Giuseppe Panzino, di 63; provocando inoltre 53 feriti. Quarant'anni fa, nel gennaio del 1983, le Brigate Rosse rapirono la vigilatrice del reparto femminile del Carcere di Rebibbia, Germana Stefanini, uccidendola con un colpo alla nuca dopo un processo farsa. Il mese dopo, sempre a Roma fu ucciso l'attivista del Fronte della Gioventù, Paolo Di Nella, colpito alla testa mentre stava affiggendo manifesti per chiedere l'espropriazione di Villa Chigi: un omicidio ferocemente rivendicato da Autonomia Operaia. Ricordo ancora, con commozione, il Presidente Sandro Pertini, che si recò al Policlinico, dove era ricoverato, in coma irreversibile, Paolo Di Nella, per portare la sua solidarietà e compiere un gesto di pacificazione, rivolto ai giovani di opposte fazioni che, nelle nostre città, erano rimasti irretiti nella rete nefasta della violenza e della vendetta. Nel luglio di quello stesso anno, l'appuntato in congedo dei Carabinieri Giovanni Bosco fu assassinato in Sardegna dal Movimento Armato Sardo per aver testimoniato in tribunale sui legami tra terroristi e criminalità organizzata.

Ricorrono trent'anni dai gravissimi attentati, di matrice terroristico-mafiosa, di Via dei Georgofili a Firenze e di Via Palestro a Milano. Le vittime di Firenze furono i coniugi Fabrizio Nencioni e Angela Fiume, con le loro figlie Nadia, di 9 anni, e Caterina di appena 50 giorni; e Dario Capolicchio. E a Milano: Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno, Alessandro Ferrari e Moussafir Driss. Stragi ancora in cerca di verità e di giustizia. Venti anni fa, a Castiglione Fiorentino, il Sovrintendente della Polizia Ferroviaria, Emanuele Petri, fu ucciso in servizio dai capi delle Nuove Brigate Rosse Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce, ritenuti responsabili degli omicidi di Massimo D'Antona e di Marco Biagi. Quante esistenze distrutte, quante vite sottratte, quanto sangue e quanto dolore sparso in nome di ideologie disumane e respinte dalla storia! Queste vittime parlano a tutti noi, parlano ai nostri giovani, sollecitandoli a fare delle istituzioni il luogo autentico del confronto politico, a non lasciarsi accecare dall'odio né tentare dalla violenza per imporre le proprie convinzioni. L'odio e la violenza costituiscono il percorso dei regimi autoritari. Rappresentano il fallimento dell'umanità, chiamata alla libertà e al rispetto reciproco. La Repubblica ha saputo produrre i suoi anticorpi, ben sapendo che un clima di scontro violento, parole d'odio, l'avversario trasformato in nemico da abbattere, costituiscono modalità patologiche della contesa politica che, oggi come allora, vanno condannate e respinte con decisione. La democrazia della nostra Repubblica si nutre di tolleranza, di pazienza, di confronto, di rispetto. È una strada che a taluno appare lunga e faticosa ma è l'unica di progresso della convivenza. L'unica capace di ottenere e mantenere nel tempo pace, serenità, benessere, diritti a tutti i cittadini. È questo l'insegnamento che ci proviene dalle tante, troppe vittime del terrorismo e dell'eversione. Intorno alla loro memoria ci stringiamo oggi commossi per ribadire con determinazione: mai più violenza politica, mai più stragi."