Una Scuola Buona?!
Un punto di vista di Titti Di Nunno
martedì 17 novembre 2015
21.15
Ho intitolato il mio articolo posponendo volutamente l'aggettivo entro questa espressione oggi così usata e/o abusata. L'ho fatto perché chiunque scelga di leggere questi contenuti non finisca con il confondere la scuola buona di cui intendo parlare io con la buona scuola degli odierni proclami politici. Lungi da me, in questa sede, entrare nel merito di una Riforma, la cui efficacia si proverà o meno soltanto sul campo, a beneficio o a scapito di chi ne sarà quotidiano fruitore. Il messaggio di cui sono portatrice è legato essenzialmente al virtuoso intreccio etimologico nonché semantico tra i due concetti cardine del sistema scuola, quelli di educazione e di insegnamento. Desidero dimostrare, quindi, come il fuoco di qualsivoglia percorso di insegnamento passi attraverso la faticosa strada dell'educazione, persino a partire dal significato etimologico degli stessi termini. Educĕre - trarre fuori - vs Insignāre - imprimere un segno -: trarre fuori il meglio di un essere umano, imprimendo un segno nella sua mente e nel suo animo! Ovvietà le mie? Conoscenze trite e ritrite? Forse sì, e mi scuso se torno ad esprimere nozioni da retorica ciceroniana. Ciò che desidero intenzionalmente sottolineare, tuttavia, è che a mio avviso si parli troppo, solo e soltanto, dell'istituzione scolastica come virtuale edificio di cui rifare il belletto, si disserti della scuola dei diversi colori politici, dei numeri ad essa connessi, siano essi i costi da sostenere per tenerla in vita, siano essi i migliaia di docenti precari che vivono ancora "come color che son sospesi …".
Io oggi vorrei parlare della scuola vera, concreta, quella di un testimone privilegiato, da un osservatorio altrettanto privilegiato, che è quello delle aule in cemento e mattoni, degli alunni in carne, ossa, mente e cuore, che popolano per davvero la scuola, della scuola come "banco di prova" per la vita di ognuno di noi. Insegno da quattordici anni, abbastanza per aver maturato un'idea chiara di che cosa significhi essere un operatore della scuola e di quanto oggi sia cruciale la nostra professione. La scuola, oggi, in non pochi casi purtroppo, è il solo soggetto/agente educante della nostra gioventù: quando manca la presenza consapevole, partecipe ed incisiva della famiglia; quando dalla famiglia non viene trasmesso o viene erroneamente trasmesso il peso di un serio percorso di fede e, quindi, in quel caso, nemmeno la chiesa riesce a farsi trasmettitrice di valori educanti; quando non c'è più neanche il tempo della strada, di quella socializzazione informale tra soggetti alla pari, che tanto ha forgiato, temprato, educato gli adulti di oggi; quando, per dirla tutta, il tempo per l'educazione è ridotto all'osso, anche da parte di genitori che sono chiamati a soddisfare non tanto bisogni primari, piuttosto, gigantesche valanghe di bisogni di tipo secondario, ossia, volti all'acquisizione di beni squisitamente voluttuari. È in questo spazio sociale lasciato vuoto che si colloca appunto la scuola e il suo attuale ruolo di bussola di una nave in bonaccia!
Una società tutta, la nostra, che, volenti o nolenti, tende a svilire e mortificare sempre di più la centralità dell'istituzione scolastica, a partire dagli atteggiamenti dei suoi utenti quotidiani, non di rado sprezzanti e supponenti nei confronti di chi si occupa e si prende cura giornalmente della giovane prole: dare del TU ai professori dei propri figli; irrompere nelle classi nel pieno di un'attività didattica in corso; pretendere arrogantemente "trattamenti speciali" per i propri pargoli; entrare vistosamente nel merito dei programmi in svolgimento, offrendo dritte su qualità e quantità degli stessi; accanirsi nei confronti di un docente, rimproverandogli comportamenti di cui non si è prima appurata la veridicità. Potrei andare ancora avanti, ma mi bastano questi come esempi di quanto la considerazione sociale della Scuola in senso lato sia giunta ormai ai minimi storici.
La domanda allora è: come si fa ad intervenire costruttivamente dal punto di vista educativo su un tessuto sociale come quello appena descritto?! Lo si può fare certamente - scrive una docente che si spende esageratamente in questa direzione - ma è molto più complesso di un tempo. Un tempo in cui il percorso di legittimazione del ruolo della scuola iniziava da quando il bambino era ancora in grembo alla sua mamma! Per non parlare dei rudimenti della buona educazione, le cosiddette buone maniere: l'attenzione maniacale che mia madre e mio padre impiegavano nell'impartirmi le regole per una sana convivenza civile, iniziando dalle sacrosante espressioni del 'GRAZIE' e del 'PER FAVORE', appartiene a sempre meno comunità e gli esiti di questo trend si riscontrano tra gli alunni della nostra epoca, in buona parte privi di quell'ABC di cui solo quaranta, cinquanta anni fa si veniva dotati non solo dai propri genitori, ma anche dai propri nonni, zii e parenti tutti. Ora, potrei spingermi oltre i suddetti ragionamenti, cercando di rintracciare le radici socio-antropologiche di queste tendenze sociali, ma il tema del mio articolo è un altro. Giunta a questo punto posso soltanto riconfermare il mio assunto iniziale e cioè che, oggi più che mai, la ricaduta di un qualsiasi percorso di insegnamento – apprendimento dipenda imprescindibilmente dalla qualità degli interventi educativi che si riesce a promuovere entro i propri gruppi-classe e che in tutto questo, se continuerà a mancare o ad essere carente l'importantissima sinergia famiglia / scuola, il lavoro del docente riuscirà a rispondere sempre meno e sempre peggio alle sfide della società complessa in cui, ahimè, viviamo!
Titti Di Nunno - docente di italiano presso la Scuola Media "G. Bovio" di Canosa -
Io oggi vorrei parlare della scuola vera, concreta, quella di un testimone privilegiato, da un osservatorio altrettanto privilegiato, che è quello delle aule in cemento e mattoni, degli alunni in carne, ossa, mente e cuore, che popolano per davvero la scuola, della scuola come "banco di prova" per la vita di ognuno di noi. Insegno da quattordici anni, abbastanza per aver maturato un'idea chiara di che cosa significhi essere un operatore della scuola e di quanto oggi sia cruciale la nostra professione. La scuola, oggi, in non pochi casi purtroppo, è il solo soggetto/agente educante della nostra gioventù: quando manca la presenza consapevole, partecipe ed incisiva della famiglia; quando dalla famiglia non viene trasmesso o viene erroneamente trasmesso il peso di un serio percorso di fede e, quindi, in quel caso, nemmeno la chiesa riesce a farsi trasmettitrice di valori educanti; quando non c'è più neanche il tempo della strada, di quella socializzazione informale tra soggetti alla pari, che tanto ha forgiato, temprato, educato gli adulti di oggi; quando, per dirla tutta, il tempo per l'educazione è ridotto all'osso, anche da parte di genitori che sono chiamati a soddisfare non tanto bisogni primari, piuttosto, gigantesche valanghe di bisogni di tipo secondario, ossia, volti all'acquisizione di beni squisitamente voluttuari. È in questo spazio sociale lasciato vuoto che si colloca appunto la scuola e il suo attuale ruolo di bussola di una nave in bonaccia!
Una società tutta, la nostra, che, volenti o nolenti, tende a svilire e mortificare sempre di più la centralità dell'istituzione scolastica, a partire dagli atteggiamenti dei suoi utenti quotidiani, non di rado sprezzanti e supponenti nei confronti di chi si occupa e si prende cura giornalmente della giovane prole: dare del TU ai professori dei propri figli; irrompere nelle classi nel pieno di un'attività didattica in corso; pretendere arrogantemente "trattamenti speciali" per i propri pargoli; entrare vistosamente nel merito dei programmi in svolgimento, offrendo dritte su qualità e quantità degli stessi; accanirsi nei confronti di un docente, rimproverandogli comportamenti di cui non si è prima appurata la veridicità. Potrei andare ancora avanti, ma mi bastano questi come esempi di quanto la considerazione sociale della Scuola in senso lato sia giunta ormai ai minimi storici.
La domanda allora è: come si fa ad intervenire costruttivamente dal punto di vista educativo su un tessuto sociale come quello appena descritto?! Lo si può fare certamente - scrive una docente che si spende esageratamente in questa direzione - ma è molto più complesso di un tempo. Un tempo in cui il percorso di legittimazione del ruolo della scuola iniziava da quando il bambino era ancora in grembo alla sua mamma! Per non parlare dei rudimenti della buona educazione, le cosiddette buone maniere: l'attenzione maniacale che mia madre e mio padre impiegavano nell'impartirmi le regole per una sana convivenza civile, iniziando dalle sacrosante espressioni del 'GRAZIE' e del 'PER FAVORE', appartiene a sempre meno comunità e gli esiti di questo trend si riscontrano tra gli alunni della nostra epoca, in buona parte privi di quell'ABC di cui solo quaranta, cinquanta anni fa si veniva dotati non solo dai propri genitori, ma anche dai propri nonni, zii e parenti tutti. Ora, potrei spingermi oltre i suddetti ragionamenti, cercando di rintracciare le radici socio-antropologiche di queste tendenze sociali, ma il tema del mio articolo è un altro. Giunta a questo punto posso soltanto riconfermare il mio assunto iniziale e cioè che, oggi più che mai, la ricaduta di un qualsiasi percorso di insegnamento – apprendimento dipenda imprescindibilmente dalla qualità degli interventi educativi che si riesce a promuovere entro i propri gruppi-classe e che in tutto questo, se continuerà a mancare o ad essere carente l'importantissima sinergia famiglia / scuola, il lavoro del docente riuscirà a rispondere sempre meno e sempre peggio alle sfide della società complessa in cui, ahimè, viviamo!
Titti Di Nunno - docente di italiano presso la Scuola Media "G. Bovio" di Canosa -