La fine della rana bollita, incapaci di una reazione adeguata
L'intervento dell'avvocato Enzo Princigalli
domenica 2 gennaio 2022
14.44
iReport
Le abbiamo già sentite le parole "sdegno" "sconcerto" "rabbia" "dolore" "solidarietà" "comitati per l'ordine e la sicurezza" "giustizia" "Canosa sicura", ricorrono ogni volta che si consuma un atto criminale o un gesto che ci scuote dal torpore e dalla indifferenza, che turba (solo per qualche giorno) le nostre coscienze perché sconvolge la illusione di essere individualmente al sicuro. In fin dei conti, tocca sempre agli altri. E invece, lentamente, senza accorgercene stiamo facendo la fine della rana bollita, incapaci di una reazione adeguata come individui, come famiglie, come comunità, come Scuola, come Istituzioni. E siccome non potrei esprimermi meglio, ripubblico la riflessione del dott. Messina all'indomani dell'omicidio a Barletta del povero giovane Lasala seguito da una serie di episodi criminosi a Corato, ad Andria, a Bisceglie e a Canosa. E poco importa se l'autore dell'ultimo atto di una serie interminabile (sono tra le vittime della serie) sia solo un incosciente disadattato o un criminale. Quella del dott. Messina è la replica alla corale richiesta di giustizia invocata come per esorcizzare le responsabilità di ciascuno di noi. "È la città che, per prima, dovrebbe riflettere e ritrovarsi intorno a ciò che ritiene sia "giusto" e, quindi, anche "buono". Essere "giusti" significa saper selezionare e scegliere. Significa guardare (non per sé, ma per tutti) un determinato orizzonte piuttosto che un altro. Significa ponderare emozione e ragione, anche in silenzio, prima di decidere. Significa cercare gli strumenti culturali per stabilire quali siano le priorità affinché un luogo, una città, siano attraenti, produttivi e sicuri. Significa capire che la parola "sicurezza" non riguarda solo l'ordine pubblico, ma ne richiama altre come "rispetto", "coerenza", "etica sociale", "solidarietà", aiuto concreto e immediato a chi ha subìto o sta subendo una violenza o anche solo un difetto di tutela. Da tempo si cita la Costituzione in modo banale o per dare spazio a narcisismi.
Bisognerebbe ricordare che tra le parole piu impegnative che vi si leggono ci sono "concorre" e "compito". Sono parole che hanno significati densi perché implicano un "dover costruire" singolo e collettivo. Rendono necessaria - in tutti i cittadini - una prospettiva, un agire "pensato" e condiviso. La giustizia (e il suo "corso", così tanto preteso da altri) non è qualcosa di "esterno", cioè l'ennesima astrazione sulla quale misurare il grado di ipocrisia raggiunto da una comunità che, tragicamente, cerca di nascondere la verità a se stessa. Né bastano i riti emotivi o gli auspici di stile per sopperire alla mancanza di un'analisi profonda su come sono mutati negli ultimi anni la vivibilità di un territorio, la qualità del tempo offerta e ricercata dai cittadini, il desiderio di rimanere o di tornarci. Tra parole scritte da molti adolescenti a commento dei fatti tragici degli ultimi giorni le piu usate sono "rabbia", "libertà", "felicità", queste ultime due senza ulteriori definizioni e intese come "necessità" esclusivamente personali e a sottolinearne la mancanza. Quasi nessuno di essi ha indicato la parola "responsabilità", cioè l'abitudine, oltre che la capacità, di fare/farsi domande e di cercare risposte nel contesto in cui si vive. Eppure una comunità (non solo le forze dell'ordine e i magistrati) dovrebbe sentire l'urgenza diffusa che "libertà" e "felicità" siano termini da rapportare a "giustizia", quale ricerca del punto di equilibrio, consapevolezza del limite. Sono temi che diventano parte della discussione pubblica quasi sempre in stretta connessione con i fatti di sangue. Sulla spinta dell'emotività, si possono raggiungere anche punte alte di reazione civile. L'emozione può essere occasione e motore potente, certo. Ma da sola non basta. Una comunità deve riconoscersi nel "tempo della razionalità", e non solo in quello dei sentimenti. Aver cognizione del dolore impone costanza e competenza, determinazione e pazienza. Ma non solo. Le esperienze tragiche che investono una comunità, oltre che portare all'affetto e alla solidarietà verso chi ha perso una persona cara e buona, dovrebbero portare allo scavo della coscienza da parte di ciascuno. Scavare nella coscienza significa, soprattutto, conoscere e poi praticare la "misura" nel vivere personale e collettivo. Lo si fa insegnando, imparando e, quindi, sapendo collettivamente che fuori da quella "misura", da quella "giustizia" a cui si concorre, c'è solo la profondità dell'abisso, di ciò che pretendiamo di essere, ma non siamo. Forse non si trova più la "giusta misura" perché non siamo più abituati a vedere quell'abisso, non ne si coglie più la profondità e il pericolo. E cosi si rischia di esserne, tutti, inesorabilmente inghiottiti". A parole non credo si possa aggiungere altro, il resto riguarda ciò che ognuno di noi può e deve fare, prima che sia troppo tardi.
Enzo Princigalli-Avvocato
Bisognerebbe ricordare che tra le parole piu impegnative che vi si leggono ci sono "concorre" e "compito". Sono parole che hanno significati densi perché implicano un "dover costruire" singolo e collettivo. Rendono necessaria - in tutti i cittadini - una prospettiva, un agire "pensato" e condiviso. La giustizia (e il suo "corso", così tanto preteso da altri) non è qualcosa di "esterno", cioè l'ennesima astrazione sulla quale misurare il grado di ipocrisia raggiunto da una comunità che, tragicamente, cerca di nascondere la verità a se stessa. Né bastano i riti emotivi o gli auspici di stile per sopperire alla mancanza di un'analisi profonda su come sono mutati negli ultimi anni la vivibilità di un territorio, la qualità del tempo offerta e ricercata dai cittadini, il desiderio di rimanere o di tornarci. Tra parole scritte da molti adolescenti a commento dei fatti tragici degli ultimi giorni le piu usate sono "rabbia", "libertà", "felicità", queste ultime due senza ulteriori definizioni e intese come "necessità" esclusivamente personali e a sottolinearne la mancanza. Quasi nessuno di essi ha indicato la parola "responsabilità", cioè l'abitudine, oltre che la capacità, di fare/farsi domande e di cercare risposte nel contesto in cui si vive. Eppure una comunità (non solo le forze dell'ordine e i magistrati) dovrebbe sentire l'urgenza diffusa che "libertà" e "felicità" siano termini da rapportare a "giustizia", quale ricerca del punto di equilibrio, consapevolezza del limite. Sono temi che diventano parte della discussione pubblica quasi sempre in stretta connessione con i fatti di sangue. Sulla spinta dell'emotività, si possono raggiungere anche punte alte di reazione civile. L'emozione può essere occasione e motore potente, certo. Ma da sola non basta. Una comunità deve riconoscersi nel "tempo della razionalità", e non solo in quello dei sentimenti. Aver cognizione del dolore impone costanza e competenza, determinazione e pazienza. Ma non solo. Le esperienze tragiche che investono una comunità, oltre che portare all'affetto e alla solidarietà verso chi ha perso una persona cara e buona, dovrebbero portare allo scavo della coscienza da parte di ciascuno. Scavare nella coscienza significa, soprattutto, conoscere e poi praticare la "misura" nel vivere personale e collettivo. Lo si fa insegnando, imparando e, quindi, sapendo collettivamente che fuori da quella "misura", da quella "giustizia" a cui si concorre, c'è solo la profondità dell'abisso, di ciò che pretendiamo di essere, ma non siamo. Forse non si trova più la "giusta misura" perché non siamo più abituati a vedere quell'abisso, non ne si coglie più la profondità e il pericolo. E cosi si rischia di esserne, tutti, inesorabilmente inghiottiti". A parole non credo si possa aggiungere altro, il resto riguarda ciò che ognuno di noi può e deve fare, prima che sia troppo tardi.
Enzo Princigalli-Avvocato