Foibe
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Storia

Agata Pinnelli: dove abita la storia: un viaggio doveroso in Istria, Dalmazia e Venezia Giulia

Nel ricordo di Norma Cossetto, caduta per l’italianità dell’Istria

L'osservazione di un giovane, emersa attraverso la comunicazione dei social network sull'ignoranza silenziosa che accompagna la "Giornata del ricordo", da cui traspare sensibilità e nello stesso tempo sdegno, mi ha stimolato a riprendere il tema della mia precedente analisi "Le Foibe, gli antri dell'oblio", incanalandolo in un percorso di liberazione della memoria, di ricostruzione di una coscienza collettiva, radice e speranza del futuro. Pertanto la conoscenza degli avvenimenti diventa indispensabile; essa sarà scandita nel tempo e correlata alle manifestazioni celebrative di momenti fondamentali della storia d'Italia nel suo divenire Nazione e Stato democratico. La storia delle Foibe appartiene all'impazzimento della ideologia sia che essa si manifestasse in nome dello spirito di dominio, delle logiche militari, sia delle pulsioni nazionalistiche. Era il potere che si trasformava nella barbarie più esplicita ed immediata.

Nei territori di confine non favoriti dalla natura (fiumi, mari, catene montuose), anche quando i due gruppi etnici che si confrontano non tendono a mescolarsi, è sempre stato difficile tracciare una linea di demarcazione capace di accontentare entrambi. Nel corso degli anni, infatti, gli spostamenti naturali delle popolazioni, oltre alle occupazioni territoriali, retaggio di antichi conflitti, hanno finito per creare una sorta di mosaico impazzito, nel quale nei momenti di crisi, sia una parte che l'altra può facilmente trovare il casus belli necessario per legittimare le proprie rivendicazioni. "Il confine, in geografia politica – ha scritto Ambrose Bierce nel suo "Dizionario del diavolo" – è quella linea immaginaria tra due nazioni che separa i diritti immaginari dell'una dai diritti immaginari dell'altra". L'esempio classico di questo fenomeno è rappresentato dalla ex Jugoslavia, uno stato multinazionale unificato da una forza centralista, venuta meno la quale, i gruppi etnici che lo componevano sono tornati a combattere gli uni contro gli altri, tutti convinti dei loro diritti e delle loro ragioni. Infatti alcuni anni fa, abbiamo assistito inorriditi alla sanguinosa disgregazione di questo stato, nato sui tavoli di Versailles nel 1918 e irrobustito su quello di Parigi e di Londra dopo la seconda guerra mondiale.

Tutte le nazionalità che lo componevano entrarono in fermento: croati, sloveni, serbi, bosniaci, montenegrini, kosovari, tutte tranne una, quella italiana storicamente radicata nella Venezia Giulia, nell'Istria, nella Dalmazia. La spiegazione è drammaticamente semplice: in quelle regioni dove ancora si incontrano vestigia romane, leoni di San Marco, di italiani non ce ne sono più. I pochi che ancora ci vivono sono i discendenti di coloro che nel secondo dopoguerra scelsero di diventare jugoslavi, mentre gli altri a migliaia sono finiti nelle foibe e centinaia di migliaia sono stati costretti all'esilio.Oggi i superstiti di questa "pulizia etnica" sono sparsi in Italia e nel mondo in una diaspora verso la quale la madrepatria si è dimostrata "ingrata" e anche "ipocrita". L'Istria, regione del confine orientale, con la disgregazione dell'impero asburgico alla fine della prima guerra mondiale, fu assegnata definitivamente all'Italia nel 1920, contesa vivamente anche dal nuovo stato jugoslavo, la cui costituzione aveva riaperto complicati contenziosi confinari.

L'avvento del fascismo impedì al governo liberale italiano di concretizzare le garanzie di libertà di lingua e di cultura per le minoranze slave del territorio. Infatti esso, anziché instaurare una convivenza pacifica del rispetto della identità culturale, cercò di italianizzare con la forza gli slavi. Fu così che dopo l'armistizio italiano dell'otto settembre 1943 con gli alleati, i titini (partigiani slavi di Tito) si vendicarono in maniera terribile guidati non solo dall'odio nei confronti degli italiani, identificati tutti come fascisti, ma anche dal progetto slavo comunista di estendersi il più possibile verso occidente sia territorialmente che ideologicamente. Dato che l'esercito italiano era allo sbando e si stava diffondendo la psicosi del "tutti a casa", per le unità partigiane slave la conquista della regione fu rapida ed incontrastata, tutta la vasta rete bellica italiana fu rapidamente smantellata, soltanto Fiume, Pola e poche altre località costiere rimasero sotto il controllo dei tedeschi, ivi presenti. Sollecitati dai miliziani slavi scesero in campo anche gli attivisti sloveni e croati, gli istriani di origine slava, nonché molti gruppi di italiani antifascisti che giudicavano necessaria l'unione delle forze per battere il fascismo e il tedesco invasore. Per questo confuso coinvolgimento, gli storici jugoslavi osarono definire "insurrezione popolare" ciò che in realtà fu un'occupazione militare vera e propria.

L'Istria si colorò di vessilli nazionali sloveni e croati, dove non trovarono visibilità netta né le bandiere rosse, simbolo della rivoluzione proletaria e del comunismo internazionale, né i tricolori italiani. Ciò determinò forti perplessità nei nostri antifascisti che avevano partecipato "all'insurrezione", perplessità che ben presto si trasformarono in serie preoccupazioni mettendo in crisi di coscienza tutti coloro che avevano accolto i "titini" come liberatori. Infatti i miliziani slavi cominciarono la caccia al fascista che equivaleva alla caccia all'italiano: gli arresti avvenivano di notte, quasi sempre giustificati come normali accertamenti di routine, evitando, così, che il panico si sviluppasse in tutta la sua disperazione con immediatezza. Caddero nella rete dell'odio e della vendetta centinaia di italiani, dai collaborazionisti ai proprietari terrieri e a tutti quelli che svolgevano una funzione pubblica, le cui colpe erano l'appartenenza ad una classe sociale borghese, oppure l'aver professato idee politiche diverse da quelle degli occupanti, oltre al comune grave reato di essere italiani. Furono istituiti i cosiddetti "tribunali del popolo", che con i loro processi burletta rivestirono di legalità le orrende stragi di italiani verificatisi durante quel tragico settembre del 43. In particolare ricordiamo il tribunale di Pisino composto da tre contadini e presieduto da Ivan Motika, un avvocato di Zagabria, morto novantenne nel 1998, proprio quando la giustizia italiana, dopo un mezzo secolo di sconcertante silenzio, aveva assunto l'iniziativa di fare luce sull'olocausto degli italiani della Venezia Giulia.

Quando verso la fine del mese i tedeschi cominciarono a muoversi per riconquistare l'Istria, i processi burletta cessarono e si infittirono le uccisioni multiple e sommarie. Legati ai polsi con filo di ferro stretto con le pinze, i prigionieri venivano spinti in colonna sul fondo delle cave di bauxite e falciati con raffiche di mitra. Nelle città costiere si procedeva agli annegamenti collettivi: legati l'uno all'altro con il filo di ferro e opportunamente zavorrati con grosse pietre venivano portati al largo su grosse barche e gettati in mare. Ma il metodo più diffuso per sbarazzarsi dei cadaveri fu quello dell'infoibamento, considerato più pratico e più facilmente occultabile. Le foibe sono voragini naturali diffusissime in Istria e caratteristiche dei territori carsici. Sotto l'apertura larga pochi metri e quasi sempre nascosta dalla vegetazione si spalanca un abisso vasto e tortuoso che può raggiungere anche i trecento metri di profondità e sul fondo si aprono grandi caverne spesso attraversate da torrenti impetuosi che raggiungono il mare per vie sconosciute. In questi inghiottitoi furono gettati dai partigiani titini migliaia di esseri umani. Spesso gli aguzzini, dopo averli allineati sull'orlo delle foibe, si limitavano ad uccidere il primo della fila, il quale, cadendo nel baratro, si trascinava dietro i compagni di sventura. Molti prima dell'esecuzione venivano torturati ed evirati, altri obbligati a spogliarsi di ogni indumento fino a trovarsi completamente nudi davanti ai carnefici. Le donne venivano violentate prima di essere infoibate e tutti gli uomini subivano sevizie indescrivibili. Inoltre finirono nelle foibe gli stessi partigiani comunisti che difendevano le proprie origini italiane; non furono risparmiati neanche i sacerdoti come don Antonio Tarticchio, parroco di Villa di Rovigno, ritrovato nudo in una foiba con una corona di filo spinato in testa. Un macabro rituale caratterizzava questi orrendi massacri: dopo l'infoibamento delle vittime veniva lanciato sul mucchio dei cadaveri un cane nero vivo che secondo un'antica leggenda balcanica l'animale "latrando in eterno toglieva per sempre agli uccisi la pace dell'al di là".

Il conto esatto delle vittime è impossibile farlo. Nella foiba di Basovizza presso Trieste (l'unica con quella di Monrupino ad essere rimasta in territorio italiano) furono recuperati 500 metri cubi di resti umani e si calcolò che le vittime dovevano essere duemila, quattro per metro cubo. Anche l'identificazione dei cadaveri, malgrado gli sforzi compiuti da pietosi ricercatori, è stata resa impossibile; gli jugoslavi hanno sempre rifiutato ogni forma di collaborazione e comunque avevano già provveduto a suo tempo a distruggere gli archivi comunali e gli schedari dell'anagrafe, bisognava impedire la conta di quanti italiani abitassero nei paesi liberati per non rivelare quanti ne mancassero all'appello. Nessuno immaginava le orrende carneficine che venivano compiute ai bordi delle foibe o nelle cave di bauxite. Le prime testimonianze furono raccolte dai contadini abitanti in sperduti casolari che raccontavano di avere udito il crepitio delle raffiche di mitra durante le loro notti insonni, non solo, ma anche le grida disperate e i lamenti delle vittime che sembravano provenire da sotterra. A ciò si aggiunsero le drammatiche testimonianze dei pochi fortunati che, fingendosi morti, oppure afferrandosi a qualche appiglio, erano riusciti a sopravvivere all'infoibamento.

Queste notizie, che parlavano di massacri collettivi, vennero accolte sulle prime con stupore e incredulità soprattutto nei centri che erano stati occupati dai tedeschi subito dopo l'otto settembre. Nessuno voleva credere a quegli orrori ritenendoli frutto di qualche fantasia malata o di una strumentalizzazione propagandistica messa in atto dai fascisti e dai tedeschi. Solo più tardi, quando cominciarono le operazioni di recupero, si scoprì che la realtà era peggiore di quella che si era immaginata: queste esecuzioni di massa non potevano essere interpretate come una risposta o una vendetta del gruppo etnico slavo ai soprusi e alle vessazioni subite. Era evidente a tutti l'enorme sproporzione. Doveva trattarsi di qualcosa di più, di un progetto consapevole e preciso di pulizia etnica, come dice il Presidente della Repubblica Napolitano, per estirpare gli italiani dall'Istria uccidendoli o costringendoli a fuggire.
Della sorte dei nostri "desaparecidos", l'Italia democratica e repubblicana non si è mai preoccupata, l'argomento non era politicamente corretto, meglio ignorarla. La morte di Norma Cossetto, istriana di Santa Domenica di Visinata, è uno degli episodi drammatici che simboleggia la bestiale ondata di violenza che si abbatté sugli italiani della Venezia Giulia, dell'Istria e della Dalmazia dopo l'otto settembre del 43, ma l'unico che si può raccontare dall'inizio alla fine.

"Norma - come racconta lo storico istriano Antonio Pitamitzaveva 23 anni, di famiglia possidente. Suo padre aveva ricoperto degli incarichi nella sezione locale del partito fascista. Studiava all'Università di Padova, stava preparando la tesi di laurea dedicata alla storia della sua Istria. Aveva scelto il titolo dal colore della sua terra fertile ed arrossata dalla presenza della bauxite: Istria rossa. Questo tema avrebbe contribuito ulteriormente ad approfondire quella ricerca storica e culturale che da tempo si conduceva per sostenere, con la testimonianza della pluricentenaria civiltà latina e veneziana, l'italianità di quelle terre che gli slavi rivendicavano. La figura di Norma era diventata famigliare agli abitanti del luogo: girava in bicicletta da un paese all'altro visitando municipi e canoniche per frugare negli archivi e sfogliare vecchie carte. Era uno studio in cui metteva tutto il suo giovanile entusiasmo, ma non poté condurlo a termine. Il ventisei settembre venne prelevata da una volante rossa composta da comunisti italiani e croati e rinchiusa nell'ex caserma dei carabinieri. I suoi carcerieri tentarono in tutti i modi di convincerla ad aderire al loro movimento, ma Norma rifiutò decisamente e quindi fu trasferita in un carcere di Antignano dove ebbe inizio la sua straziante via crucis. La ragazza dovette subire ogni sorta di tormenti: legata sopra un tavolo fu violentata ripetutamente dai suoi aguzzini. Una donna, che abitava nei pressi della prigione, udendo i suoi lamenti, ebbe il coraggio verso sera di avvicinarsi alle imposte vedendo la ragazza ancora legata al tavolo mentre invocava ancora i genitori, chiedeva aiuto, chiedeva acqua, chiedeva pietà. Dopo giorni di sofferenza fu condotta nel paese di Santa Domenica dove il solito tribunale del popolo la condannò a morte sbrigativamente insieme ad altri ventisei compagni di sventura. Per tutti la tomba doveva essere una foiba di Villa Surani. I morituri furono legati insieme e scortati fino al luogo dell'esecuzione da sedici partigiani titini. Norma non si reggeva in piedi, ma prima di precipitarla nella voragine, i giustizieri vollero ancora approfittare di lei. Nulla si sarebbe saputo della fine di Norma se il caso non avesse giocato la sua parte. Tempo dopo i tedeschi che avevano rioccupato quella zona catturarono alcuni partigiani dai quali si seppe la verità. I sedici aguzzini furono identificati e catturati, la salma di Norma fu recuperata dalla foiba, in fondo alla quale giacevano anche i suoi ventisei compagni e una decina di altri italiani uccisi successivamente. I poveri resti vennero riportati in superficie dopo un penoso lavoro durato ore dai volontari, guidati dal maresciallo dei vigili del fuoco di Pola Arnaldo Harzarich, l'uomo cui si deve il recupero di centinaia di cadaveri infoibati. La salma di Norma, prima della sepoltura, venne composta nella cappella del cimitero di Santa Domenica e i suoi torturatori furono costretti per vendetta a vegliarla tutta la notte al lume tremolante dei ceri. Fu una veglia funebre di terrore: il mattino seguente, quando i sedici titini furono fucilati dai tedeschi, tre di essi erano impazziti".

Alla memoria di Norma, la cui famiglia lamentava altri sette infoibati, nel dopoguerra venne un riconoscimento autorevole. L'Università di Padova su proposta di Concetto Marchesi, suo professore, e con l'unanimità del Consiglio della Facoltà di Lettere e Filosofia, le conferì la laurea "honoris causa". In quella occasione qualcuno obiettò che Norma non meritava tale riconoscimento perché non era caduta per la libertà, ma Concetto Marchesi, benché militante comunista, affermò che Norma Cossetto era caduta per l'italianità dell'Istria e che meritava più di chiunque altro quel riconoscimento. Solo con la ricostruzione della memoria possiamo guardare avanti con l'animo libero.
Professoressa Agata Pinnelli
A Norma CossettoFoibeFoibe
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