Stilus Magistri
Siamo figli di “fatigatori”
Storie di lavoratori del 1° Maggio
venerdì 1 maggio 2020
13.48
Nella festa del lavoro del 1° Maggio, vogliamo rievocare e fare memoria delle connotazioni socio-culturali della metà del '900 delle categorie lavorative che costituiscono un patrimonio umano, storico, socio-economico, culturale, spirituale del lavoro. Lo Stato Civile del '900 a Canosa di Puglia(BT) riporta con sapiente connotazione la specifica categoria lavorativa della persona, che peraltro oggi indica negli studi di scuola i mestieri scomparsi della civiltà contadina e artigianale e oggi trasformati, ma inglobati in terminologie generiche. Riportiamo qui alcune denominazioni che danno dignità anche ai nostri padri di paese che abbiamo conosciuto o che ci sono state raccontate. Queste denominazioni le abbiamo ritrovate anche nei fogli matricolari dei soldati di leva in tempo di guerra, quando, per esempio, mio padre Giovanni era riportato come "carrettiere", come evoca anche il poeta Pascoli in una bella poesia del mondo agreste.
Il "contadino" era il lavoratore più diffuso quando si viveva dal lavoro dei campi, ma c'era anche "l'ortolano"; "il maniscalco"; il "muratore"; "il gelatiere", sì proprio quello che aveva la bancarella ambulante di caramelle davanti al Bar Di Miccoli in piazza san Sabino; il "bottaio" come è scritto all'ingresso del tinale di Mosca in via Fabrizio Rossi e che rimanda al patrimonio vinicolo delle cantine tufacee sotterranee di Canosa. E c'era anche il "sarto"; il "beccaio", "il pizzicagnolo"; il "mastro d'ascia" (falegname); il "mastro carraio" fabbro dei nostri carretti contadini; "il fornaio" mestiere presente in ogni quartiere che ci ha lasciato il profumo del pane quotidiano e dei dolci di festa; "il lattoniere" che ricordo nella strada di casa mia nelle mani abili dello stagnino Di Donna, che oltre a risanare e stagnare le pentole di rame di cucina, forgiava gli stampi di latta delle Scarcelle e forgiava, come ho visto, le armature dei "pupi di Lorenzo" come scrivo nel mio libro di Dialettologia.
E c'era.... "il banditore", "u scettabbànne", che ricordo, e che "gettava il bando" in dialetto come comunicato del Sindaco ad ogni angolo di strada. E quando si parlava di disoccupati, la persona veniva riportata come "giornaliero di campagna", che vivendo alla giornata si recava in piazza "a li tre lambìre" a "promettere" il suo servizio per il domani. Erano i "lavoratori di giornata" che facevano la fame, come ritroviamo nella persona di Michele Damiano, raccontato da mia nonna, confinato "all'acqua rossa" dal Fascismo con la figlia Lucia, valente autrice di poesie dialettali da me riscoperte; Lui finì a Ventotene con Sandro Pertini. Parlando poi delle donne e del lavoro dignitoso della "casalinga", spesso ritroviamo nelle famiglie benestanti la denominazione di "attendente di casa", che hanno interessato le nostre madri. Le nostre mamme, le nostre massaie, le nostre lavandaie, le nostre materassaie, le nostre ricamatrici, le nostre catechiste, le nostre maestre di scuola materna, come ricordo mia madre che ci leggeva il libro "Cuore" di De Amicis. Erano che le nostre "levatrici", che ci hanno portato a mano alla luce nella nascita in casa.
"Il figlio del...."
Il lavoro, spesso tramandato ai figli, diventava anche la connotazione sociale di ognuno di noi che veniva chiamato come "il figlio del...". Così don Peppino Giuliani, Missionario in Brasile, che studiava di sera all'angolo di strada sotto la luce del lampione pubblico era chiamato in dialetto "il figlio del fornaio". E l'artista Lino Banfi era chiamato da bambino come "il figlio dell'Andriese l'ortolano", in dialetto. E c'era il figlio "du veccìre", la figlia "du peddère", l'ostetrica Cannone; il figlio "du Salatàure" come racconta Vittorio Schiralli nel romanzo Famiglie, e che ho avuto il piacere di contattare al telefono, sulle storia delle capre canosine; il figlio "du zappatàure", sì, dei tanti "zappatori" delle nostra terra dei campi. E c'era il "maestro" , "l'insegnante", raro nella figura femminile, che dà dignità alla mia categoria di Maestro di Scuola, ancora in servizio volontario. Ma il lessico del "figlio di..." si ritrova nelle radici bibliche, dove Gesù di Nazareth, nella discendenza terrena, nello stupire per la sua sapienza nella Sinagoga, viene denominato nel Vangelo di Matteo (13, 55-56). "non è egli forse il figlio del carpentiere?". Nel testo in latino della Vulgata viene riportato:"Nonne hic est fabri filius?"
Il fatigatore
La riflessione del mondo del lavoro in questa Festa del Lavoro del 1° Maggio 2020 la racchiudo nel lessico dialettale e italiano di "fatigatore", che veniva attribuito ai lavoratori. "U fadegatàure", che ritroviamo in italiano nel Dizionario Palazzi del '900, nel termine "faticatore", "colui che resiste alla fatica" , dalla radice latina "fatigator". Oggi in tempo travagliato di epidemia del Coronavirus, siamo tutti, piccoli e grandi, "fatigatori" contro il Virus, desiderosi di riprendere la nostra attività lavorativa o in cerca di lavoro, su cui si fonda la dignità umana del pane quotidiano e la nostra Democrazia. Onore a quanti svolgono lavoro volontario in questa emergenza e anche nella età della pensione. Nel rapporto tra cultura e fede, tra umano e sacro, non dimentichiamo l'artigiano di Nazareth, San Giuseppe Lavoratore, associato con il Patrocinio cristiano da PIO XII nel 1955 alla Festa del Lavoro. Mio padre nel sudore delle terra in contrada "La Palata" presso l'Ofanto, al termine della fatica, come ricordo da ragazzo, si fermava commosso dicendo in dialetto "se il Signore benedice quest'anno il raccolto!" Nel nostro affidamento, voglia il Signore benedire il nostro lavoro e i lavoratori! Salute a noi "figli di fatigatori!"
Maestro Peppino Di Nunno
Il "contadino" era il lavoratore più diffuso quando si viveva dal lavoro dei campi, ma c'era anche "l'ortolano"; "il maniscalco"; il "muratore"; "il gelatiere", sì proprio quello che aveva la bancarella ambulante di caramelle davanti al Bar Di Miccoli in piazza san Sabino; il "bottaio" come è scritto all'ingresso del tinale di Mosca in via Fabrizio Rossi e che rimanda al patrimonio vinicolo delle cantine tufacee sotterranee di Canosa. E c'era anche il "sarto"; il "beccaio", "il pizzicagnolo"; il "mastro d'ascia" (falegname); il "mastro carraio" fabbro dei nostri carretti contadini; "il fornaio" mestiere presente in ogni quartiere che ci ha lasciato il profumo del pane quotidiano e dei dolci di festa; "il lattoniere" che ricordo nella strada di casa mia nelle mani abili dello stagnino Di Donna, che oltre a risanare e stagnare le pentole di rame di cucina, forgiava gli stampi di latta delle Scarcelle e forgiava, come ho visto, le armature dei "pupi di Lorenzo" come scrivo nel mio libro di Dialettologia.
E c'era.... "il banditore", "u scettabbànne", che ricordo, e che "gettava il bando" in dialetto come comunicato del Sindaco ad ogni angolo di strada. E quando si parlava di disoccupati, la persona veniva riportata come "giornaliero di campagna", che vivendo alla giornata si recava in piazza "a li tre lambìre" a "promettere" il suo servizio per il domani. Erano i "lavoratori di giornata" che facevano la fame, come ritroviamo nella persona di Michele Damiano, raccontato da mia nonna, confinato "all'acqua rossa" dal Fascismo con la figlia Lucia, valente autrice di poesie dialettali da me riscoperte; Lui finì a Ventotene con Sandro Pertini. Parlando poi delle donne e del lavoro dignitoso della "casalinga", spesso ritroviamo nelle famiglie benestanti la denominazione di "attendente di casa", che hanno interessato le nostre madri. Le nostre mamme, le nostre massaie, le nostre lavandaie, le nostre materassaie, le nostre ricamatrici, le nostre catechiste, le nostre maestre di scuola materna, come ricordo mia madre che ci leggeva il libro "Cuore" di De Amicis. Erano che le nostre "levatrici", che ci hanno portato a mano alla luce nella nascita in casa.
"Il figlio del...."
Il lavoro, spesso tramandato ai figli, diventava anche la connotazione sociale di ognuno di noi che veniva chiamato come "il figlio del...". Così don Peppino Giuliani, Missionario in Brasile, che studiava di sera all'angolo di strada sotto la luce del lampione pubblico era chiamato in dialetto "il figlio del fornaio". E l'artista Lino Banfi era chiamato da bambino come "il figlio dell'Andriese l'ortolano", in dialetto. E c'era il figlio "du veccìre", la figlia "du peddère", l'ostetrica Cannone; il figlio "du Salatàure" come racconta Vittorio Schiralli nel romanzo Famiglie, e che ho avuto il piacere di contattare al telefono, sulle storia delle capre canosine; il figlio "du zappatàure", sì, dei tanti "zappatori" delle nostra terra dei campi. E c'era il "maestro" , "l'insegnante", raro nella figura femminile, che dà dignità alla mia categoria di Maestro di Scuola, ancora in servizio volontario. Ma il lessico del "figlio di..." si ritrova nelle radici bibliche, dove Gesù di Nazareth, nella discendenza terrena, nello stupire per la sua sapienza nella Sinagoga, viene denominato nel Vangelo di Matteo (13, 55-56). "non è egli forse il figlio del carpentiere?". Nel testo in latino della Vulgata viene riportato:"Nonne hic est fabri filius?"
Il fatigatore
La riflessione del mondo del lavoro in questa Festa del Lavoro del 1° Maggio 2020 la racchiudo nel lessico dialettale e italiano di "fatigatore", che veniva attribuito ai lavoratori. "U fadegatàure", che ritroviamo in italiano nel Dizionario Palazzi del '900, nel termine "faticatore", "colui che resiste alla fatica" , dalla radice latina "fatigator". Oggi in tempo travagliato di epidemia del Coronavirus, siamo tutti, piccoli e grandi, "fatigatori" contro il Virus, desiderosi di riprendere la nostra attività lavorativa o in cerca di lavoro, su cui si fonda la dignità umana del pane quotidiano e la nostra Democrazia. Onore a quanti svolgono lavoro volontario in questa emergenza e anche nella età della pensione. Nel rapporto tra cultura e fede, tra umano e sacro, non dimentichiamo l'artigiano di Nazareth, San Giuseppe Lavoratore, associato con il Patrocinio cristiano da PIO XII nel 1955 alla Festa del Lavoro. Mio padre nel sudore delle terra in contrada "La Palata" presso l'Ofanto, al termine della fatica, come ricordo da ragazzo, si fermava commosso dicendo in dialetto "se il Signore benedice quest'anno il raccolto!" Nel nostro affidamento, voglia il Signore benedire il nostro lavoro e i lavoratori! Salute a noi "figli di fatigatori!"
Maestro Peppino Di Nunno