Le lettere di Agata Pinnelli
Il milite ignoto, simbolo di una tragedia.
La Grande Guerra nel suo centenario 1914 – 1918
mercoledì 26 novembre 2014
19.19
Con la conferenza intitolata "Il milite ignoto, simbolo di una tragedia", svoltasi lunedì scorso all'UNITRE di Canosa di Puglia (BT), si è voluto dare una piccolissima idea della tragedia che ha rappresentato per l'Europa e soprattutto per l'Italia, il conflitto del 1914/18, passata alla storia come la Grande Guerra di cui quest'anno si celebra il centenario, una grande occasione per riflettere sul perché delle guerre, in particolare di questa, ed interrogarsi su cosa facciamo noi oggi affinché questi nostri antenati non siano morti invano. La Grande Guerra è un'epopea diventata mito negativo. Il bollettino della vittoria "… i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza …" è scritto su ogni palazzo comunale d'Italia, ma la Vittoria per coloro che l'avevano voluta apparve "mutilata", mentre per cattolici e socialisti, tranne qualche eccezione, che l'avevano avversata, ricordandone le atrocità la considerarono l'antefatto della dittature fascista. E in effetti il prezzo pagato dagli italiani per Trento e Trieste fu altissimo. Non basta a quantificarlo neppure la terribile cifra di 600.000 morti. Nessun esercito trattò più duramente i propri uomini; nessun esercito punì ripetutamente le stesse unità con la decimazione, fucilando individui scelti a caso. L'Italia mobilitò il medesimo numero di soldati della Gran Bretagna, ma i condannati a morte furono tre volte di più. Il governo italiano fu l'unico a proibire ai familiari di inviare ai prigionieri cibo o vestiti. Significativa la denuncia di Ungaretti, un grandissimo poeta del novecento che partì volontario per la guerra, anche se non gli è mai piaciuta la guerra, ma che la reputava necessaria, quindi andava fatta con serietà come anche per Emilio Gadda, grande espressione della narrativa novecentesca. Mark Thompson nel suo bellissimo saggio "La guerra bianca" ha scritto che "Se Ungaretti si trovava sull'Isonzo (Isonzo che segna i confini orientali della patria e testimonia il sacrificio di una generazione), allora l'Isonzo era il posto giusto, anche per altri soldati italiani. E se quello era il posto giusto, allora le argomentazioni che avevano dato il via alla loro invasione erano valide …".
Nell'estate del '17, quella che precede la famosa battaglia di Caporetto, grandissima tragedia, di cui si parla poco e senza della quale non si può capire la vittoria sul Piave, un'altra testimonianza sulla crudeltà messa in atto contro i nostri Fanti, da parte degli alti comandi, lo stesso Ungaretti – come racconta Mark Thompson, essendo passato nelle stanze del Comando, si era lamentato a voce alta per le condizioni dei soldati: " Vorrei sapere che cosa passa per la testa del vostro generale! Che cosa passa per la testa di tutti qui? I soldati sono esauriti, sono al limite estremo e, quanto al morale, è a terra già da tempo. Dove ci porterà tutto questo? Dove?". Condividere i sacrifici con i commilitoni fanti lo faceva sentire per la prima volta parte di una comunità, piccolo ingranaggio della storia nazionale. Egli rifiutava qualunque elemento che lo avesse distinto da un altro soldato, perché lo riteneva non un diritto, ma un odioso privilegio. Le sue poesie sul fronte raccontano la consapevolezza di fare il proprio dovere in una guerra condotta male che costava un prezzo altissimo, ma contribuiva a unificare il paese, a forgiare gli italiani, a riavvicinare settentrionali e meridionali, contadini e borghesi, laureati ed analfabeti, accumunati dalla stessa uniforme. Anche Gadda non ignorava i limiti del comando italiano e il sacrificio imposto alla "fanteria". Anche lui imprecava contro i generali e pure contro il re, ma sempre in privato, mai davanti ai suoi uomini. "Chissà quelle mucche gravide, quegli acquosi pancioni di ministri, senatori e di generaloni, chissà come crederanno di aver provveduto alle sorti del proprio paese con i loro discorsi, le visite al fronte, le interviste. Ma guardino, ma vedano, ma pensino come è calzato il 5° reggimento degli alpini! Ma Salandra, quello scemo balbuziente di un re, ma quei deputati che vanno a vedere le trincee domandassero conto di noi…"
Quindi Gadda come Ungaretti era un semplice soldato che aveva fatto la guerra da volontario, badando a farla bene. Nell'estate del 16, i due letterati innovatori della poesia e della narrativa italiana, pur ignorando l'esistenza l'uno dell'altro, avevano combattuto a pochi Km di distanza, rispettivamente il soldato Ungaretti sul S. Michele, il sottotenente Gadda sul Carso orientale. In seguito quest'ultimo fu trasferito più a Nord, sempre nella zona del Carso tra Plezzo e Tolmino, dove il 24 ottobre 1917 gli austriaci, rafforzati di tedeschi attaccarono e sfondarono le nostre posizioni passando l'Isonzo, occupando le due sponde. Gadda sarebbe dovuto stare a casa in quella data, ma, poiché aveva ceduto la licenza ad un altro ufficiale, era rimasto sul fronte; vide il nemico sfilare sotto di lui e penetrare il territorio italiano. Con il cuore spezzato non gli restò che scendere da quelle cime che erano costate agli italiani migliaia di vittime. I tedeschi furono duri, ma non feroci: i prigionieri dovettero marciare dalla mezzanotte alle otto del mattino… Nei suoi appunti annotò: "Un orrore, la fine di ogni speranza, annientamento della vita interiore. Estrema angoscia per la patria … Se morirò, l'annuncio deve essere il più semplice possibile … da evitare assolutamente parole Patria, onore, fervida gioventù, fiore di giovinezza, odiato nemico, orgoglioso e commosso … Basta che scriviate: è caduto in combattimento…". Durante tutto l'anno di prigionia, Gadda dormì sonni inquieti e tormentosi, sognava i familiari e i conoscenti che lo rimproveravano: "li avete lasciati passare …". Al di là di qualche fante, morto ultracentenario uno a 110 anni nel 2005, l'altro a 109, breve fu la vita di tanti loro commilitoni, dei padri di famiglia, trascinati a combattere controvoglia e dei giovani volontari che arrivarono da ogni parte del regno e anche dalle terre irredente.
Furono migliaia gli italiani che vivevano nell'impero asburgico e combatterono con i loro compatrioti. La maggior parte erano cittadini italiani che lavoravano a Trieste e nel Tirolo: per questi la scelta era tra il rimpatrio, l'arruolamento e la deportazione; non erano quindi veri volontari, ma pur sempre uomini che avevano scelto di combattere, altri però erano sudditi di Francesco Giuseppe, che passarono il confine andando incontro a morte quasi certa. Se anche fossero sopravvissuti agli assalti, in caso di cattura sarebbero stati impiccati come accadde a Cesare Battisti e Nazario Sauro. Nonostante questi rischi dal Trentino partirono volontari 760 uomini; da Trieste 881: oltre trecento di loro caddero sul campo. Il più celebre era Scipio Slataper, cadde il 3 dicembre 1915 sul Podgora, "il calvario", come lo chiamavano i soldati, colpito da una pallottola croata o bosniaca. Anche questi non amava la guerra, tanto meno il modo scriteriato con cui veniva fatta ed è stato il volontario triestino Giani Stuparich, a spiegare perché Slataper fosse partito volontario e perché ritenesse inevitabile il sacrificio: "Egli non approvava che si perdessero tante vite per mancata preveggenza o per insufficienza di mezzi. Ma se per cementare la storia avvenire della Patria c'era bisogno anche di quel sangue, così dolorosamente versato, egli non poteva preservare il suo con la scusa che i generali italiani fossero tanti ignobili carnefici".
Altri volontari triestini non sapevano scrivere così bene, ma comunque nei loro scritti si lamentavano per la diffidenza e l'avversione con cui li accolsero i soldati semplici che vedevano in loro spie austriache o idealisti corresponsabili della guerra. Altri prendevano congedo dai parenti con pagine piene di esaltazione; altri ancora scrivevano lettere meravigliose e piene di consapevolezza, a genitori che non capivano perché il figlio desse la vita per una terra in cui non era mai vissuto e che non avrebbe mai conosciuto. Nel giugno del 1915, un anno prima di essere falciato da una mitragliatrice, Antonio Bergamas scriveva alla madre: "Domani partirò per chissà dove, quasi certo per andare alla morte. Quando tu riceverai questa mia, io non ci sarò più. Forse tu non comprenderai questo, non potrai capire come non essendo io costretto sia andato a morire sui campi di battaglia. Perdonami dell'immenso dolore ch'io ti reco e di quello ch'io reco a mio padre e a mia sorella, ma credilo mi riesce mille volte più dolce il morire in faccia al mio paese, al mare nostro, per la patria mia naturale, che il morire laggiù nei campi ghiacciati della Galizia o in quelli sassosi della Serbia, per una Patria che non era la mia e che io odiavo. Addio mia mamma amata, addio mia sorella cara, addio padre mio. Se muoio, muoio coi vostri nomi amatissimi sulle labbra, davanti al nostro Carso Selvaggio"
Sulla linea del Piave, il 24 ottobre 1918, l'esercito italiano riconquista le posizioni perdute e sfonda a Vittorio Veneto, disgregando completamente l'esercito austriaco, facendo in modo che all'imperatore Carlo I non resti altra scelta che firmare la resa. Era il 4 novembre 1918. La Grande Guerra! Una guerra seria, profondamente sentita da coloro che vi parteciparono; "una guerra di indipendenza", secondo alcuni storici, che completò il nostro territorio e contribuì a cementare il senso di unità nazionale, proprio con le sue distruzioni, sacrifici, sofferenze patiti insieme. La grande guerra è stata per gli italiani la prima vera esperienza collettiva, la prima tragica pagina di una storia comune: quando si trattò di andare all'assalto in terre sconosciute per conquistare città di cui non avevano mai sentito nominare, i fanti analfabeti si lasciarono condurre al macello con crescente ribellione, coscienti del non senso di ciò che erano costretti a fare, ma quando, dopo Caporetto, si trattò di difendere la patria, la casa, la famiglia, i ragazzi del "99" seppero resistere sul Grappa da soli, prima che giungessero i rinforzi francesi ed inglesi. Fu in quei giorni cruciali in cui, secondo Benedetto Croce, si decideva il destino d'Italia per i secoli a venire. Fu sul Grappa e sul Piave che fu chiaro agli occhi dell'opinione pubblica nazionale ed internazionale che l'Italia non era un'invenzione delle elites culturali, un'utopia di giovani studenti ed operai, un affare per gli speculatori di guerra. La Resistenza del 1918 sul Piave, ancor prima della Resistenza del 43/45, fu la fiera prova che l'Italia non sarebbe mai più stata un'espressione geografica, come la pensava Metternich, primo ministro austriaco, ma era diventata una realtà irreversibile, uno Stato, una Nazione, giovane sì, ma non meno solida di altri costituiti da secoli. È vero, fu una prova terribile per l'Italia Unita, poteva scomparire e invece fu un fatto compiuto, ritrovò se stessa e la sua identità di Nazione.
La prima guerra mondiale ha dimostrato che gli italiani sanno battersi fino al sacrificio per cause giuste e ciò ha elevato il prestigio dell'esercito italiano, rispetto agli anni precedenti, considerato come un fastidio da evitare o un affare tutto economico da spartire. Ancora oggi l'esercito italiano gode di un prestigio molto elevato all'estero, i nostri soldati sono i migliori negli interventi operativi in cui vengono coinvolti durante le missioni di Pace. La memoria della Grande Guerra si è spenta, forse per i troppi errori, sofferenze, disastri, ma questo centenario è l'occasione propizia per compiere una doverosa lotta di liberazione della memoria, che è la speranza del futuro, per far emergere, per non dimenticare il valore, il sacrificio dei nostri soldati in un conflitto in cui tutta l'organizzazione militare, dalla vita nelle trincee agli scontri diretti, annullò i valori di umanità. Però la memoria storica della grande guerra non è sopita, è davanti a noi, in ogni paese dell'Italia, dal più piccolo al più grande. Non c'è borgo, paese o città, in cui non ci sia qualche pietra lapidare o quadro che non ricordi qualche caduto in questa guerra. Anche qui a Canosa di Puglia, in Corso Garibaldi e in Corso Gramsci sono riposte due pietre dedicate al sacrificio di due nostri concittadini, caduti nella Grande Guerra, rispettivamente Michele Patruno e Iacobone Francesco, oltre che un quadro presso la sede dell'Associazione dei Bersaglieri, riportanti circa duecento foto di caduti, le cui grida, sul campo di battaglia, di amore patriottico, di senso del dovere, di rabbia, di dolore come soldati e di servizio coraggioso come medici, continuano a risuonare ancora oggi di ammonimento e di speranza, a lavorare insieme per costruire una Patria che abbia sempre a cuore il Bene Comune, la Vita e non senta più la necessità di ricorrere alla violenza, qualunque sia la sua matrice. Ma questo non è bastato per ricordare i tanti caduti in questa grande strage bellica. Lo Stato italiano si fece promotore dell'invenzione di un simbolo felice e potente di questa tragedia: il milite ignoto.
Il "Vittoriano" a Roma è luogo di una doppia memoria storica: fu inaugurato nel 1911 dal presidente del Consiglio Giovanni Giolitti in onore del re Vittorio Emanuele II che aveva costruito l'Unità d'Italia, consacrandolo come "Padre della Patria". È obblio oggi di quanto è scritto sui due frontoni del Vittoriano: "Patriae unitati" all'unità della Patria, ma anche e soprattutto "Civium libertati" alla libertà dei cittadini. Il Regno di Vittorio Emanuele, con il suo coinvolgimento nel Risorgimento, ha coinciso, per l'Italia, con la fine dell'antico regime delle monarchie assolute, delle servitù feudali e l'inizio della lenta espansione delle libertà borghesi, della democrazia rappresentativa, dei diritti civili. Con un disegno di legge del giugno 1921 il monumento viene designato per accogliere una nuova memoria: il "Milite ignoto". Il Ministero della guerra allora presieduto dal ministro Gasparotto procedette alla nomina di una commissione costituita da vari rappresentanti dell'esercito di vario grado, da generale al semplice soldato che avevano partecipato alla guerra, con il compito di raccogliere sui campi delle battaglie più cruente in cui si era immolato il maggior numero di soldati, undici salme di fanti sconosciuti e deporle nel tempio romano di Aquileia, dove si sarebbe svolta la cerimonia della scelta della salma che sarebbe diventato il "Milite ignoto" da tumulare a Roma. La commissione cominciò il suo viaggio di ricerca partendo dalla pianura friulana verso la Valsugana, Trento, Rovereto, il monte Pasubio, gli altipiano di Asiago, Bassano il monte Grappa, il Montello, lungo il Piave, Udine con le zone di Tolmezzo, il passo della Mauria, Pieve di Cadore, Cortina dove furono esplorate le cime di Falzarego e le Tofane, Gorizia, l'Isonzo, il San Michele e tutta la zona del Carso. La ricerca delle salme era difficile, data l'asperità del luogo montano; i segnali che facevano supporre la presenza di salme erano rozze croci di legno, grovigli di filo spinato, a volte nascosti in crepacci, insenature di pareti rocciose pericolose. Quando trovavano salme a cui non era possibile dare una identità, veniva scelta, ricomposta nella bara e portata nella chiesa del paese più vicino. Man mano la commissione si spostava, si spostava anche il convoglio delle salme prescelte per essere depositate nei luoghi sacri dei paesi delle zone da esplorare. Molto onore veniva tributato al passaggio delle salme: semplici montanari distendevano tappeti di fiori il cui profumo doveva arrivare in cielo allo spirito dei caduti come segno di devozione per aver salvato la loro terra.
Le salme lungo il percorso venivano continuamente vegliate dalla devozione di ex combattenti, madri, vedove, orfani. A volte capitava in alcune zone che l'esplorazione non dava alcun risultato perché l'ufficio cura onoranze salme caduti in guerra aveva provveduto a ricomporre e dare sepoltura, nei cimiteri di guerra, ai resti dei moltissimi soldati senza nome. In questi casi la scelta delle tombe da esumare veniva affidata alla sorte. La stessa cosa accadeva quando nella zona esplorata emergevano i resti di due fanti di cui uno veniva tumulata nei cimiteri di guerra della zona. A Gorizia terminò la missione. Qui le salme furono onorate da folle di popolo, era risorto lo spirito nazionale anche in quelli che erano stati contrari alla guerra. Dopo una grande cerimonia le salme furono trasportate nel tempio di Aquileia. Infatti la mattina del 27 ottobre le 11 salme attraversarono Gorizia spalla a spalla, al loro passaggio il popolo si inginocchiava con devozione e lanci di fiori. Giunte alla stazione le salme ricevettero la benedizione di un cappellano militare, furono caricate su appositi autocarri ornati di lauro e tricolori mentre la musica della canzone del Piave si diffondeva nell'aria. Molti comuni avevano chiesto che il Convoglio corteo attraversasse i loro paesi affinché fosse tributata la riconoscenza del popolo per la liberazione della propria terra. Quindi dovettero deviare il percorso stabilito per attraversare borgate e villaggi. Il 28 ottobre quando il convoglio giunse ad Aquileia fu una data storica per la città, divenuta altare di eroi e perciò meta quella mattina di migliaia di devoti giunti per assistere al rito solenne per la scelta della salma senza nome che dovrà essere tumulata al Vittoriano a Roma. Chi avrebbe scelto la salma? Naturalmente una madre che non sa dove riposa la sua creatura: si pensò all'udinese Anna Visentini Ferruglio, i cui figli morirono in guerra meritando il primo la medaglia d'oro al valore militare; poi si pensò di scegliere una popolana fra le più provate dal Calvario. Fu considerato il caso di una vecchia mamma che versa nella più assoluta indigenza e che il suo amore per il figlio perduto la condusse con pazienti tappe da Livorno a Udine a piedi pur di raggiungere la propria creatura. La Commissione pensò pure ad una mamma che ebbe la forza di assistere a 150 esumazioni pur di trovare i resti di suo figlio e che nonostante tale appassionata ricerca non poté rintracciarlo. Si pensò ad un'altra madre, una vecchia popolana di Lavarone che pur di deporre i resti del figlio nel cimitero del paese accanto al padre, da sola esumò le ossa della sua creatura ponendosele in grembo dopo averle legate con un nastro tricolore. Ma la Commissione rievocando lo spirito della nostra guerra (la liberazione delle terre irredente del Trentino e del Friuli), in omaggio ai martiri delle terre Redente e alla passione, sofferenza dei lunghi anni di esilio sopportata da quei figli d'Italia, deliberò di scegliere una popolana ebrea, Maria Bergamas di Trieste ormai Redenta il cui figlio Antonio, unico suo sostegno e sua speranza, disertò l'esercito austriaco per correre volontariamente sotto la bandiera d'Italia per la quale combatté da umile e ardente soldato, fino a che in combattimento trovò la morte e il suo corpo non si poté rintracciare.Questa doveva scegliere fra undici bare di fantaccini sconosciuti, come suo figlio, quella del soldato che sarebbe diventato il milite ignoto. Ella sfilò davanti alle bare quasi le stringesse in un abbraccio amorevole finché giunse di fronte alla penultima dove l'emozione la vinse e chiamando per nome il suo figliolo cadde in ginocchio abbracciando quel feretro e svenne senza poter salutare l'ultima salma. Visse ancora per molti anni, sperimentò il diritto di voto, sancito per la prima volta alle donne, simbolo della nuova patria democratica, per la quale il figlio era morto in una terra che lei stessa pensava sconosciuta, finalmente liberata dalla "furia" delle guerre, grazie alla forza del diritto sancito dalla nostra meravigliosa Costituzione. Oggi Maria Bergamas riposa nel cimitero di Aquilea accanto alle altre dieci bare rimaste. Ecco, quella bara di un ragazzo sconosciuto, senza nome, doveva rimanere il segno del sacrificio di centinaia di migliaia di ragazzi caduti senza nomi sui vari fronti del conflitto.
Il 1° novembre 1921
Il ministro della guerra Gasparotto ha conferito la medaglia d'oro al valor militare al Milite Ignoto con la seguente motivazione: "Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il sui coraggio nelle più cruenti battaglie e cadde combattendo senz'altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria – 24 maggio 1915 – 4 novembre 1918".
- Soldato senza nome e senza storia. Egli è la Storia: la storia del nostro lungo travaglio, la storia della nostra grande vittoria.-
Il treno che recava la bara, guidato dal più esperto macchinista dello scalo romano di S. Lorenzo, attraversò buona parte dell'Italia, tra due siepi di popoli in ginocchio che lanciavano fiori, commossi e devoti, riconoscendo in quella salma un proprio caro disperso su cui non avevano potuto piangere. Una cerimonia solenne accolse la salma senza nome alla stazione Termini, abbracciata ancora una volta da una folla di cittadini. Dopo la cerimonia religiosa nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, venne tumulata al centro del gigantesco monumento dedicato a Vittorio Emanuele cambiandogli il senso: "anche lui, soldato ignoto aveva contribuito alla vittoria, alla costruzione della Patria comune". Era il 4 novembre 1921. Da quel giorno il milite ignoto, simbolo dell'altare della Patria, sarà onorato non solo da tutti gli italiani nei rispettivi paesi, ma soprattutto da tutti i capi di Stato e sovrani in visita nel nostro paese. Infatti non c'è visita di Stato che non contempli un omaggio al milite ignoto, presidiato da allora giorno e notte da un picchetto d'onore della marina, dell'aeronautica e dell'esercito.
Agata Pinnelli
Nell'estate del '17, quella che precede la famosa battaglia di Caporetto, grandissima tragedia, di cui si parla poco e senza della quale non si può capire la vittoria sul Piave, un'altra testimonianza sulla crudeltà messa in atto contro i nostri Fanti, da parte degli alti comandi, lo stesso Ungaretti – come racconta Mark Thompson, essendo passato nelle stanze del Comando, si era lamentato a voce alta per le condizioni dei soldati: " Vorrei sapere che cosa passa per la testa del vostro generale! Che cosa passa per la testa di tutti qui? I soldati sono esauriti, sono al limite estremo e, quanto al morale, è a terra già da tempo. Dove ci porterà tutto questo? Dove?". Condividere i sacrifici con i commilitoni fanti lo faceva sentire per la prima volta parte di una comunità, piccolo ingranaggio della storia nazionale. Egli rifiutava qualunque elemento che lo avesse distinto da un altro soldato, perché lo riteneva non un diritto, ma un odioso privilegio. Le sue poesie sul fronte raccontano la consapevolezza di fare il proprio dovere in una guerra condotta male che costava un prezzo altissimo, ma contribuiva a unificare il paese, a forgiare gli italiani, a riavvicinare settentrionali e meridionali, contadini e borghesi, laureati ed analfabeti, accumunati dalla stessa uniforme. Anche Gadda non ignorava i limiti del comando italiano e il sacrificio imposto alla "fanteria". Anche lui imprecava contro i generali e pure contro il re, ma sempre in privato, mai davanti ai suoi uomini. "Chissà quelle mucche gravide, quegli acquosi pancioni di ministri, senatori e di generaloni, chissà come crederanno di aver provveduto alle sorti del proprio paese con i loro discorsi, le visite al fronte, le interviste. Ma guardino, ma vedano, ma pensino come è calzato il 5° reggimento degli alpini! Ma Salandra, quello scemo balbuziente di un re, ma quei deputati che vanno a vedere le trincee domandassero conto di noi…"
Quindi Gadda come Ungaretti era un semplice soldato che aveva fatto la guerra da volontario, badando a farla bene. Nell'estate del 16, i due letterati innovatori della poesia e della narrativa italiana, pur ignorando l'esistenza l'uno dell'altro, avevano combattuto a pochi Km di distanza, rispettivamente il soldato Ungaretti sul S. Michele, il sottotenente Gadda sul Carso orientale. In seguito quest'ultimo fu trasferito più a Nord, sempre nella zona del Carso tra Plezzo e Tolmino, dove il 24 ottobre 1917 gli austriaci, rafforzati di tedeschi attaccarono e sfondarono le nostre posizioni passando l'Isonzo, occupando le due sponde. Gadda sarebbe dovuto stare a casa in quella data, ma, poiché aveva ceduto la licenza ad un altro ufficiale, era rimasto sul fronte; vide il nemico sfilare sotto di lui e penetrare il territorio italiano. Con il cuore spezzato non gli restò che scendere da quelle cime che erano costate agli italiani migliaia di vittime. I tedeschi furono duri, ma non feroci: i prigionieri dovettero marciare dalla mezzanotte alle otto del mattino… Nei suoi appunti annotò: "Un orrore, la fine di ogni speranza, annientamento della vita interiore. Estrema angoscia per la patria … Se morirò, l'annuncio deve essere il più semplice possibile … da evitare assolutamente parole Patria, onore, fervida gioventù, fiore di giovinezza, odiato nemico, orgoglioso e commosso … Basta che scriviate: è caduto in combattimento…". Durante tutto l'anno di prigionia, Gadda dormì sonni inquieti e tormentosi, sognava i familiari e i conoscenti che lo rimproveravano: "li avete lasciati passare …". Al di là di qualche fante, morto ultracentenario uno a 110 anni nel 2005, l'altro a 109, breve fu la vita di tanti loro commilitoni, dei padri di famiglia, trascinati a combattere controvoglia e dei giovani volontari che arrivarono da ogni parte del regno e anche dalle terre irredente.
Furono migliaia gli italiani che vivevano nell'impero asburgico e combatterono con i loro compatrioti. La maggior parte erano cittadini italiani che lavoravano a Trieste e nel Tirolo: per questi la scelta era tra il rimpatrio, l'arruolamento e la deportazione; non erano quindi veri volontari, ma pur sempre uomini che avevano scelto di combattere, altri però erano sudditi di Francesco Giuseppe, che passarono il confine andando incontro a morte quasi certa. Se anche fossero sopravvissuti agli assalti, in caso di cattura sarebbero stati impiccati come accadde a Cesare Battisti e Nazario Sauro. Nonostante questi rischi dal Trentino partirono volontari 760 uomini; da Trieste 881: oltre trecento di loro caddero sul campo. Il più celebre era Scipio Slataper, cadde il 3 dicembre 1915 sul Podgora, "il calvario", come lo chiamavano i soldati, colpito da una pallottola croata o bosniaca. Anche questi non amava la guerra, tanto meno il modo scriteriato con cui veniva fatta ed è stato il volontario triestino Giani Stuparich, a spiegare perché Slataper fosse partito volontario e perché ritenesse inevitabile il sacrificio: "Egli non approvava che si perdessero tante vite per mancata preveggenza o per insufficienza di mezzi. Ma se per cementare la storia avvenire della Patria c'era bisogno anche di quel sangue, così dolorosamente versato, egli non poteva preservare il suo con la scusa che i generali italiani fossero tanti ignobili carnefici".
Altri volontari triestini non sapevano scrivere così bene, ma comunque nei loro scritti si lamentavano per la diffidenza e l'avversione con cui li accolsero i soldati semplici che vedevano in loro spie austriache o idealisti corresponsabili della guerra. Altri prendevano congedo dai parenti con pagine piene di esaltazione; altri ancora scrivevano lettere meravigliose e piene di consapevolezza, a genitori che non capivano perché il figlio desse la vita per una terra in cui non era mai vissuto e che non avrebbe mai conosciuto. Nel giugno del 1915, un anno prima di essere falciato da una mitragliatrice, Antonio Bergamas scriveva alla madre: "Domani partirò per chissà dove, quasi certo per andare alla morte. Quando tu riceverai questa mia, io non ci sarò più. Forse tu non comprenderai questo, non potrai capire come non essendo io costretto sia andato a morire sui campi di battaglia. Perdonami dell'immenso dolore ch'io ti reco e di quello ch'io reco a mio padre e a mia sorella, ma credilo mi riesce mille volte più dolce il morire in faccia al mio paese, al mare nostro, per la patria mia naturale, che il morire laggiù nei campi ghiacciati della Galizia o in quelli sassosi della Serbia, per una Patria che non era la mia e che io odiavo. Addio mia mamma amata, addio mia sorella cara, addio padre mio. Se muoio, muoio coi vostri nomi amatissimi sulle labbra, davanti al nostro Carso Selvaggio"
Sulla linea del Piave, il 24 ottobre 1918, l'esercito italiano riconquista le posizioni perdute e sfonda a Vittorio Veneto, disgregando completamente l'esercito austriaco, facendo in modo che all'imperatore Carlo I non resti altra scelta che firmare la resa. Era il 4 novembre 1918. La Grande Guerra! Una guerra seria, profondamente sentita da coloro che vi parteciparono; "una guerra di indipendenza", secondo alcuni storici, che completò il nostro territorio e contribuì a cementare il senso di unità nazionale, proprio con le sue distruzioni, sacrifici, sofferenze patiti insieme. La grande guerra è stata per gli italiani la prima vera esperienza collettiva, la prima tragica pagina di una storia comune: quando si trattò di andare all'assalto in terre sconosciute per conquistare città di cui non avevano mai sentito nominare, i fanti analfabeti si lasciarono condurre al macello con crescente ribellione, coscienti del non senso di ciò che erano costretti a fare, ma quando, dopo Caporetto, si trattò di difendere la patria, la casa, la famiglia, i ragazzi del "99" seppero resistere sul Grappa da soli, prima che giungessero i rinforzi francesi ed inglesi. Fu in quei giorni cruciali in cui, secondo Benedetto Croce, si decideva il destino d'Italia per i secoli a venire. Fu sul Grappa e sul Piave che fu chiaro agli occhi dell'opinione pubblica nazionale ed internazionale che l'Italia non era un'invenzione delle elites culturali, un'utopia di giovani studenti ed operai, un affare per gli speculatori di guerra. La Resistenza del 1918 sul Piave, ancor prima della Resistenza del 43/45, fu la fiera prova che l'Italia non sarebbe mai più stata un'espressione geografica, come la pensava Metternich, primo ministro austriaco, ma era diventata una realtà irreversibile, uno Stato, una Nazione, giovane sì, ma non meno solida di altri costituiti da secoli. È vero, fu una prova terribile per l'Italia Unita, poteva scomparire e invece fu un fatto compiuto, ritrovò se stessa e la sua identità di Nazione.
La prima guerra mondiale ha dimostrato che gli italiani sanno battersi fino al sacrificio per cause giuste e ciò ha elevato il prestigio dell'esercito italiano, rispetto agli anni precedenti, considerato come un fastidio da evitare o un affare tutto economico da spartire. Ancora oggi l'esercito italiano gode di un prestigio molto elevato all'estero, i nostri soldati sono i migliori negli interventi operativi in cui vengono coinvolti durante le missioni di Pace. La memoria della Grande Guerra si è spenta, forse per i troppi errori, sofferenze, disastri, ma questo centenario è l'occasione propizia per compiere una doverosa lotta di liberazione della memoria, che è la speranza del futuro, per far emergere, per non dimenticare il valore, il sacrificio dei nostri soldati in un conflitto in cui tutta l'organizzazione militare, dalla vita nelle trincee agli scontri diretti, annullò i valori di umanità. Però la memoria storica della grande guerra non è sopita, è davanti a noi, in ogni paese dell'Italia, dal più piccolo al più grande. Non c'è borgo, paese o città, in cui non ci sia qualche pietra lapidare o quadro che non ricordi qualche caduto in questa guerra. Anche qui a Canosa di Puglia, in Corso Garibaldi e in Corso Gramsci sono riposte due pietre dedicate al sacrificio di due nostri concittadini, caduti nella Grande Guerra, rispettivamente Michele Patruno e Iacobone Francesco, oltre che un quadro presso la sede dell'Associazione dei Bersaglieri, riportanti circa duecento foto di caduti, le cui grida, sul campo di battaglia, di amore patriottico, di senso del dovere, di rabbia, di dolore come soldati e di servizio coraggioso come medici, continuano a risuonare ancora oggi di ammonimento e di speranza, a lavorare insieme per costruire una Patria che abbia sempre a cuore il Bene Comune, la Vita e non senta più la necessità di ricorrere alla violenza, qualunque sia la sua matrice. Ma questo non è bastato per ricordare i tanti caduti in questa grande strage bellica. Lo Stato italiano si fece promotore dell'invenzione di un simbolo felice e potente di questa tragedia: il milite ignoto.
Il "Vittoriano" a Roma è luogo di una doppia memoria storica: fu inaugurato nel 1911 dal presidente del Consiglio Giovanni Giolitti in onore del re Vittorio Emanuele II che aveva costruito l'Unità d'Italia, consacrandolo come "Padre della Patria". È obblio oggi di quanto è scritto sui due frontoni del Vittoriano: "Patriae unitati" all'unità della Patria, ma anche e soprattutto "Civium libertati" alla libertà dei cittadini. Il Regno di Vittorio Emanuele, con il suo coinvolgimento nel Risorgimento, ha coinciso, per l'Italia, con la fine dell'antico regime delle monarchie assolute, delle servitù feudali e l'inizio della lenta espansione delle libertà borghesi, della democrazia rappresentativa, dei diritti civili. Con un disegno di legge del giugno 1921 il monumento viene designato per accogliere una nuova memoria: il "Milite ignoto". Il Ministero della guerra allora presieduto dal ministro Gasparotto procedette alla nomina di una commissione costituita da vari rappresentanti dell'esercito di vario grado, da generale al semplice soldato che avevano partecipato alla guerra, con il compito di raccogliere sui campi delle battaglie più cruente in cui si era immolato il maggior numero di soldati, undici salme di fanti sconosciuti e deporle nel tempio romano di Aquileia, dove si sarebbe svolta la cerimonia della scelta della salma che sarebbe diventato il "Milite ignoto" da tumulare a Roma. La commissione cominciò il suo viaggio di ricerca partendo dalla pianura friulana verso la Valsugana, Trento, Rovereto, il monte Pasubio, gli altipiano di Asiago, Bassano il monte Grappa, il Montello, lungo il Piave, Udine con le zone di Tolmezzo, il passo della Mauria, Pieve di Cadore, Cortina dove furono esplorate le cime di Falzarego e le Tofane, Gorizia, l'Isonzo, il San Michele e tutta la zona del Carso. La ricerca delle salme era difficile, data l'asperità del luogo montano; i segnali che facevano supporre la presenza di salme erano rozze croci di legno, grovigli di filo spinato, a volte nascosti in crepacci, insenature di pareti rocciose pericolose. Quando trovavano salme a cui non era possibile dare una identità, veniva scelta, ricomposta nella bara e portata nella chiesa del paese più vicino. Man mano la commissione si spostava, si spostava anche il convoglio delle salme prescelte per essere depositate nei luoghi sacri dei paesi delle zone da esplorare. Molto onore veniva tributato al passaggio delle salme: semplici montanari distendevano tappeti di fiori il cui profumo doveva arrivare in cielo allo spirito dei caduti come segno di devozione per aver salvato la loro terra.
Le salme lungo il percorso venivano continuamente vegliate dalla devozione di ex combattenti, madri, vedove, orfani. A volte capitava in alcune zone che l'esplorazione non dava alcun risultato perché l'ufficio cura onoranze salme caduti in guerra aveva provveduto a ricomporre e dare sepoltura, nei cimiteri di guerra, ai resti dei moltissimi soldati senza nome. In questi casi la scelta delle tombe da esumare veniva affidata alla sorte. La stessa cosa accadeva quando nella zona esplorata emergevano i resti di due fanti di cui uno veniva tumulata nei cimiteri di guerra della zona. A Gorizia terminò la missione. Qui le salme furono onorate da folle di popolo, era risorto lo spirito nazionale anche in quelli che erano stati contrari alla guerra. Dopo una grande cerimonia le salme furono trasportate nel tempio di Aquileia. Infatti la mattina del 27 ottobre le 11 salme attraversarono Gorizia spalla a spalla, al loro passaggio il popolo si inginocchiava con devozione e lanci di fiori. Giunte alla stazione le salme ricevettero la benedizione di un cappellano militare, furono caricate su appositi autocarri ornati di lauro e tricolori mentre la musica della canzone del Piave si diffondeva nell'aria. Molti comuni avevano chiesto che il Convoglio corteo attraversasse i loro paesi affinché fosse tributata la riconoscenza del popolo per la liberazione della propria terra. Quindi dovettero deviare il percorso stabilito per attraversare borgate e villaggi. Il 28 ottobre quando il convoglio giunse ad Aquileia fu una data storica per la città, divenuta altare di eroi e perciò meta quella mattina di migliaia di devoti giunti per assistere al rito solenne per la scelta della salma senza nome che dovrà essere tumulata al Vittoriano a Roma. Chi avrebbe scelto la salma? Naturalmente una madre che non sa dove riposa la sua creatura: si pensò all'udinese Anna Visentini Ferruglio, i cui figli morirono in guerra meritando il primo la medaglia d'oro al valore militare; poi si pensò di scegliere una popolana fra le più provate dal Calvario. Fu considerato il caso di una vecchia mamma che versa nella più assoluta indigenza e che il suo amore per il figlio perduto la condusse con pazienti tappe da Livorno a Udine a piedi pur di raggiungere la propria creatura. La Commissione pensò pure ad una mamma che ebbe la forza di assistere a 150 esumazioni pur di trovare i resti di suo figlio e che nonostante tale appassionata ricerca non poté rintracciarlo. Si pensò ad un'altra madre, una vecchia popolana di Lavarone che pur di deporre i resti del figlio nel cimitero del paese accanto al padre, da sola esumò le ossa della sua creatura ponendosele in grembo dopo averle legate con un nastro tricolore. Ma la Commissione rievocando lo spirito della nostra guerra (la liberazione delle terre irredente del Trentino e del Friuli), in omaggio ai martiri delle terre Redente e alla passione, sofferenza dei lunghi anni di esilio sopportata da quei figli d'Italia, deliberò di scegliere una popolana ebrea, Maria Bergamas di Trieste ormai Redenta il cui figlio Antonio, unico suo sostegno e sua speranza, disertò l'esercito austriaco per correre volontariamente sotto la bandiera d'Italia per la quale combatté da umile e ardente soldato, fino a che in combattimento trovò la morte e il suo corpo non si poté rintracciare.Questa doveva scegliere fra undici bare di fantaccini sconosciuti, come suo figlio, quella del soldato che sarebbe diventato il milite ignoto. Ella sfilò davanti alle bare quasi le stringesse in un abbraccio amorevole finché giunse di fronte alla penultima dove l'emozione la vinse e chiamando per nome il suo figliolo cadde in ginocchio abbracciando quel feretro e svenne senza poter salutare l'ultima salma. Visse ancora per molti anni, sperimentò il diritto di voto, sancito per la prima volta alle donne, simbolo della nuova patria democratica, per la quale il figlio era morto in una terra che lei stessa pensava sconosciuta, finalmente liberata dalla "furia" delle guerre, grazie alla forza del diritto sancito dalla nostra meravigliosa Costituzione. Oggi Maria Bergamas riposa nel cimitero di Aquilea accanto alle altre dieci bare rimaste. Ecco, quella bara di un ragazzo sconosciuto, senza nome, doveva rimanere il segno del sacrificio di centinaia di migliaia di ragazzi caduti senza nomi sui vari fronti del conflitto.
Il 1° novembre 1921
Il ministro della guerra Gasparotto ha conferito la medaglia d'oro al valor militare al Milite Ignoto con la seguente motivazione: "Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il sui coraggio nelle più cruenti battaglie e cadde combattendo senz'altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria – 24 maggio 1915 – 4 novembre 1918".
- Soldato senza nome e senza storia. Egli è la Storia: la storia del nostro lungo travaglio, la storia della nostra grande vittoria.-
Il treno che recava la bara, guidato dal più esperto macchinista dello scalo romano di S. Lorenzo, attraversò buona parte dell'Italia, tra due siepi di popoli in ginocchio che lanciavano fiori, commossi e devoti, riconoscendo in quella salma un proprio caro disperso su cui non avevano potuto piangere. Una cerimonia solenne accolse la salma senza nome alla stazione Termini, abbracciata ancora una volta da una folla di cittadini. Dopo la cerimonia religiosa nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, venne tumulata al centro del gigantesco monumento dedicato a Vittorio Emanuele cambiandogli il senso: "anche lui, soldato ignoto aveva contribuito alla vittoria, alla costruzione della Patria comune". Era il 4 novembre 1921. Da quel giorno il milite ignoto, simbolo dell'altare della Patria, sarà onorato non solo da tutti gli italiani nei rispettivi paesi, ma soprattutto da tutti i capi di Stato e sovrani in visita nel nostro paese. Infatti non c'è visita di Stato che non contempli un omaggio al milite ignoto, presidiato da allora giorno e notte da un picchetto d'onore della marina, dell'aeronautica e dell'esercito.
Agata Pinnelli