Le lettere di Agata Pinnelli
Il Negazionismo
La memoria offesa
lunedì 26 gennaio 2015
22.09
Sono passati settant'anni dalla liberazione e chiusura dei lager, che rappresentano ancora oggi la testimonianza viva della infernale macchina del genocidio degli ebrei d'Europa ad opera dei nazisti. Ormai dopo anni di studio, di ricerca, di riflessione critica dei documenti per ricostruire la verità storica e storiografica, nessuno può mettere in dubbio ciò che è stato, proprio perché supportata dalla voce delle poche centinaia che poterono sopravvivere nell'inferno di Auschwitz – Birkenau, cercando di raccontare cosa sia significato sopravvivere alla disumanità più totale e rientrare nella società dei vari stati in cui risiedevano prima della tragedia, o andare a costruire la società israeliana in Palestina. Il giorno della memoria è il racconto corale di un pezzo della storia europea nel suo periodo storico più terribile, nel nostro caso di una Italia indifesa, abbandonata, perseguitata, straziata, ma che ha trovato la forza di ricostruire una vita dignitosa. Le voci delle vittime ci costringono a riflettere sul significato di minoranza, tolleranza, cittadinanza, civiltà. Nonostante tutto, ancora oggi, risuonano le teorie negazioniste che contestano non solo l'esistenza dello sterminio di massa della popolazione ebraica, ma demoliscono la memoria delle vittime e la verità storica. Infatti uno sparuto gruppo di individui, a dispetto della realtà, si ostina a negare l'esistenza delle camere a gas; altri più numerosi le considerano un semplice dettaglio della seconda guerra mondiale. Alla base di questi discorsi c'è un antisemitismo non molto celato: senza Auschwitz si può tornare tranquillamente antisemiti. Pertanto la negazione della Shoah si connota come una pericolosissima menzogna che ribalta una "verità fattuale", ricostruita nel tempo attraverso un immane lavoro di testimonianza, di recupero della memoria individuale e collettiva, nonché di documentazione analitica.Di qui emerge la necessità di distinguere l'uso pubblico della Storia, come mezzo finalizzato alla coscienza della memoria collettiva, della identità di un popolo, di una Nazione e come strumento mirante alla manipolazione dei fatti storici per scopi ideologici, che implicano naturalmente falsificazione, distorsione di verità comprovate e consolidate. La sua pericolosità sul piano etico, culturale e politico, nel nostro presente, viene sottovalutata, in quanto pensiamo si tratti di rigurgiti nostalgici di pochi fanatici, che non potranno mai scalfire la solidità democratica, ormai radicata nella società moderna. Ma non è così perché la negazione non si limita all'oppressione, alla discriminazione frammentata e sporadica qua e là, ma va a negare il diritto all'esistenza a quegli esseri umani che l'ideologia ha reso superflui.
A questo punto, mi piace fare una correlazione con la situazione dell'Europa nel periodo della Belle Epoque, in cui il progresso scientifico, economico, sociale diffondeva una fiducia estrema nella ragione e nelle risorse dell'intelligenza, atte ad alimentare una convivenza pacifica, duratura, tanto da considerare impossibile che potesse scatenarsi una immensa tragedia, quale è stata la Grande Guerra del 1914/18 (oggi il centenario), per il dispendio di vite umane mai verificatosi prima. Si pensava, in seguito, che sarebbe stata l'ultima guerra: bastava vaccinare le nuove generazioni con le emozioni dei racconti storici di quanto accaduto per far sì che non potesse mai riaccadere un evento del genere. Questo non ci ha immunizzati dalla possibilità di un nuovo conflitto. Infatti occorre "affidarsi alla ragione; – afferma Primo Levi – il razzismo, l'intolleranza, i regimi totalitari hanno bisogno di mitologie di massa, di capi carismatici, di simboli che seducono l'immaginario. Solo lo studio, la discussione, la riflessione, l'atteggiamento e il confronto razionale che rifiuta le facili mitologie, possono scampare l'umanità da un pericolo che è sempre attuale; è solo lo spirito critico e problematico che può indurre l'uomo a porre al centro della propria riflessione l'idea di unità del genere umano e della solidarietà che ne deriva". Questo non bisogna mai dimenticarlo, a mio avviso, perché oggi la crisi economica, il disagio sociale de giovani, nonché della piccola e media borghesia su cui si innesta il nostro sistema produttivo, sono facili alleati, come lo furono ai tempi di Hitler.
Il negazionismo mette in campo un dibattito sempre aperto tra filosofi, storici, giuristi perché in esso si contrappongono due concetti fondamentali: la difesa della ricostruzione veritativa dei fatti storici e la salvaguardia della libertà di espressione e di pensiero, entrambi diritti fondamentali. Questo contrasto condiziona le scelte e le decisioni politiche nel riconoscere anche in Italia il reato di negazionismo, che in alcuni paesi europei è riconosciuto in maniera specifico anche sul piano penale. Nel 2007, infatti le Nazioni Unite hanno approvato una risoluzione degli USA che "condanna senza riserve qualsiasi diniego dell'Olocausto e sollecita tutti i membri a respingerlo che sia parziale o totale e a respingere iniziative in senso contrario". A riguardo i negazionisti considerano tali leggi come un mezzo per limitare la libertà di parola e una difesa degli storici olocaustici con la forza della legge.
In democrazia non esistono diritti assoluti se non il diritto della democrazia a non farsi distruggere dall'esercizio estremo dei propri diritti, in quanto affermare il falso non ha niente a che vedere con la libertà d'opinione, di espressione, diritto che non può prescindere dal senso etico di responsabilità e di Verità.
"Occorre bilanciare – afferma la giurista Daniela Bifulco – in maniera corretta e responsabile due valori costituzionali pari: da un lato la libertà d'opinione, dall'altro il rispetto della dignità delle vittime, rimodulando il problema della verità in termini di diritto alla Verità, che elimini dall'esercizio della libertà d'opinione la diffusione deliberata di falsità e mistificazioni".
Dal momento che i primi negazionisti sono stati i nazisti stessi, impegnandosi alacremente nella cancellazione delle prove delle loro nefandezze (ma per fortuna non sufficientemente) si comprende che il negazionismo non riguarda il passato ma piuttosto il presente e il futuro. La storica Annah Arendt definì i lager antri dell'oblio, proprio perché il loro fine ultimo era la cancellazione persino del ricordo delle vittime dalla memoria dei viventi, esseri umani privati dell'identità che venivano cancellati a milioni in quelle fabbriche di morte. "Nulla è più nostro – scrive Primo Levi, una delle testimonianze di sopravvissuti evocata nel modo migliore – ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli. Ci toglieranno anche il nome; e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome qualcosa ancora di noi, quali eravamo, rimanga. Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate vengano tolti la casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base a un puro giudizio di utilità".
L'ideologia nazista puntava sulla natura smisurata dei suoi crimini, "poiché – scrive Gunther Anders – dinanzi ad eventi troppo grandi diventiamo degli analfabeti emotivi, che non si accorgono più di averli davanti agli occhi. Sei milioni per noi rimane solo una cifra, mentre se si parla di 10 assassinati in noi riecheggia in qualche modo un qualcosa, un solo assassinato ci riempie d'orrore". Il paradosso del filosofo vuole dimostrare la natura e i limiti della nostra umanità dinanzi all'abisso della disumanizzazione che la Shoah ha mostrato come mai prima nella storia umana. Ciò è testimoniato dalle esperienze di alcuni sopravvissuti. "Avevo paura dell'indifferenza, - spiega Elisa Springer in una intervista - negli anni novanta non c'era l'interesse che c'è oggi, nessuno voleva sapere. Ho cercato di parlare qualche volta, ma mi si voltavano le spalle e mi si diceva anche non può essere vero, non ti credo. Allora mi sono chiusa in me stessa e non ho parlato. Non sono stata incoraggiata come oggi. Io parlo da quasi quattro anni e vedo che c'è molto interesse e molta voglia di sapere e allora sono riuscita fuori, sono tornata a Auschwitz".
"Ho iniziato a raccontare quello che avevo visto e vissuto a Birkenau molto tempo dopo – racconta Shlomo Venezia, uno dei pochissimi sopravvissuti addetti alle camere a gas – non perché non ne volessi parlare, ma per il fatto che le persone non volevano ascoltare, non volevano crederci. Quando uscii dall'ospedale, mi ritrovai con un ebreo e cominciai a parlare. Ad un tratto mi resi conto che, invece di guardarmi, guardava dietro di me qualcuno che gli faceva dei segni. Mi girai e vidi uno dei suoi amici che gli diceva con i gesti che ero completamente matto. Da quel momento non ho più voluto raccontare. Parlarne era una sofferenza e quando mi trovavo davanti a persone che non mi credevano mi dicevo che era inutile. Solo nel 1992 ho ricominciato a parlarne anche perché in Italia l'antisemitismo riprendeva a manifestarsi e sui muri si vedevano sempre più croci uncinate".
Occorre ora guardare il fondo di quell'abisso, non ritrarsi dinanzi all'orrore, poiché esso ci racconta chi siamo, illustra sin dove gli esseri umani possono spingersi, poiché su quella soglia l'impensabile diventa pensato, l'inimmaginabile immaginato, l'inconcepibile concepito.
Nelle affermazioni dei negazionisti viene leso l'interesse collettivo alla memoria, poiché esiste un diritto culturale alla memoria che si coniuga con l'idea di Primo Levi che la memoria è soprattutto un dovere. Pertanto bisogna esigere che all'esercizio del diritto di parola e di opinione corrisponda sempre l'obbligo del rispetto etico della verità, della storia e della memoria incancellabile dei sommersi e del sacrificio immane di rammemorazione dei salvati, perché il futuro dell'umanità non debba fare i conti con l'orrore.
I meccanismi genocidari prodotti dal totalitarismo restano sempre modelli ripetibili, cioè possono sopravvivere nel nostro presente sotto forma di tentazioni ogni qualvolta appare impossibile alleviare la miseria politica, sociale o economica in maniera degna dell'uomo.
Agata Pinnelli
A questo punto, mi piace fare una correlazione con la situazione dell'Europa nel periodo della Belle Epoque, in cui il progresso scientifico, economico, sociale diffondeva una fiducia estrema nella ragione e nelle risorse dell'intelligenza, atte ad alimentare una convivenza pacifica, duratura, tanto da considerare impossibile che potesse scatenarsi una immensa tragedia, quale è stata la Grande Guerra del 1914/18 (oggi il centenario), per il dispendio di vite umane mai verificatosi prima. Si pensava, in seguito, che sarebbe stata l'ultima guerra: bastava vaccinare le nuove generazioni con le emozioni dei racconti storici di quanto accaduto per far sì che non potesse mai riaccadere un evento del genere. Questo non ci ha immunizzati dalla possibilità di un nuovo conflitto. Infatti occorre "affidarsi alla ragione; – afferma Primo Levi – il razzismo, l'intolleranza, i regimi totalitari hanno bisogno di mitologie di massa, di capi carismatici, di simboli che seducono l'immaginario. Solo lo studio, la discussione, la riflessione, l'atteggiamento e il confronto razionale che rifiuta le facili mitologie, possono scampare l'umanità da un pericolo che è sempre attuale; è solo lo spirito critico e problematico che può indurre l'uomo a porre al centro della propria riflessione l'idea di unità del genere umano e della solidarietà che ne deriva". Questo non bisogna mai dimenticarlo, a mio avviso, perché oggi la crisi economica, il disagio sociale de giovani, nonché della piccola e media borghesia su cui si innesta il nostro sistema produttivo, sono facili alleati, come lo furono ai tempi di Hitler.
Il negazionismo mette in campo un dibattito sempre aperto tra filosofi, storici, giuristi perché in esso si contrappongono due concetti fondamentali: la difesa della ricostruzione veritativa dei fatti storici e la salvaguardia della libertà di espressione e di pensiero, entrambi diritti fondamentali. Questo contrasto condiziona le scelte e le decisioni politiche nel riconoscere anche in Italia il reato di negazionismo, che in alcuni paesi europei è riconosciuto in maniera specifico anche sul piano penale. Nel 2007, infatti le Nazioni Unite hanno approvato una risoluzione degli USA che "condanna senza riserve qualsiasi diniego dell'Olocausto e sollecita tutti i membri a respingerlo che sia parziale o totale e a respingere iniziative in senso contrario". A riguardo i negazionisti considerano tali leggi come un mezzo per limitare la libertà di parola e una difesa degli storici olocaustici con la forza della legge.
In democrazia non esistono diritti assoluti se non il diritto della democrazia a non farsi distruggere dall'esercizio estremo dei propri diritti, in quanto affermare il falso non ha niente a che vedere con la libertà d'opinione, di espressione, diritto che non può prescindere dal senso etico di responsabilità e di Verità.
"Occorre bilanciare – afferma la giurista Daniela Bifulco – in maniera corretta e responsabile due valori costituzionali pari: da un lato la libertà d'opinione, dall'altro il rispetto della dignità delle vittime, rimodulando il problema della verità in termini di diritto alla Verità, che elimini dall'esercizio della libertà d'opinione la diffusione deliberata di falsità e mistificazioni".
Dal momento che i primi negazionisti sono stati i nazisti stessi, impegnandosi alacremente nella cancellazione delle prove delle loro nefandezze (ma per fortuna non sufficientemente) si comprende che il negazionismo non riguarda il passato ma piuttosto il presente e il futuro. La storica Annah Arendt definì i lager antri dell'oblio, proprio perché il loro fine ultimo era la cancellazione persino del ricordo delle vittime dalla memoria dei viventi, esseri umani privati dell'identità che venivano cancellati a milioni in quelle fabbriche di morte. "Nulla è più nostro – scrive Primo Levi, una delle testimonianze di sopravvissuti evocata nel modo migliore – ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli. Ci toglieranno anche il nome; e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome qualcosa ancora di noi, quali eravamo, rimanga. Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate vengano tolti la casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base a un puro giudizio di utilità".
L'ideologia nazista puntava sulla natura smisurata dei suoi crimini, "poiché – scrive Gunther Anders – dinanzi ad eventi troppo grandi diventiamo degli analfabeti emotivi, che non si accorgono più di averli davanti agli occhi. Sei milioni per noi rimane solo una cifra, mentre se si parla di 10 assassinati in noi riecheggia in qualche modo un qualcosa, un solo assassinato ci riempie d'orrore". Il paradosso del filosofo vuole dimostrare la natura e i limiti della nostra umanità dinanzi all'abisso della disumanizzazione che la Shoah ha mostrato come mai prima nella storia umana. Ciò è testimoniato dalle esperienze di alcuni sopravvissuti. "Avevo paura dell'indifferenza, - spiega Elisa Springer in una intervista - negli anni novanta non c'era l'interesse che c'è oggi, nessuno voleva sapere. Ho cercato di parlare qualche volta, ma mi si voltavano le spalle e mi si diceva anche non può essere vero, non ti credo. Allora mi sono chiusa in me stessa e non ho parlato. Non sono stata incoraggiata come oggi. Io parlo da quasi quattro anni e vedo che c'è molto interesse e molta voglia di sapere e allora sono riuscita fuori, sono tornata a Auschwitz".
"Ho iniziato a raccontare quello che avevo visto e vissuto a Birkenau molto tempo dopo – racconta Shlomo Venezia, uno dei pochissimi sopravvissuti addetti alle camere a gas – non perché non ne volessi parlare, ma per il fatto che le persone non volevano ascoltare, non volevano crederci. Quando uscii dall'ospedale, mi ritrovai con un ebreo e cominciai a parlare. Ad un tratto mi resi conto che, invece di guardarmi, guardava dietro di me qualcuno che gli faceva dei segni. Mi girai e vidi uno dei suoi amici che gli diceva con i gesti che ero completamente matto. Da quel momento non ho più voluto raccontare. Parlarne era una sofferenza e quando mi trovavo davanti a persone che non mi credevano mi dicevo che era inutile. Solo nel 1992 ho ricominciato a parlarne anche perché in Italia l'antisemitismo riprendeva a manifestarsi e sui muri si vedevano sempre più croci uncinate".
Occorre ora guardare il fondo di quell'abisso, non ritrarsi dinanzi all'orrore, poiché esso ci racconta chi siamo, illustra sin dove gli esseri umani possono spingersi, poiché su quella soglia l'impensabile diventa pensato, l'inimmaginabile immaginato, l'inconcepibile concepito.
Nelle affermazioni dei negazionisti viene leso l'interesse collettivo alla memoria, poiché esiste un diritto culturale alla memoria che si coniuga con l'idea di Primo Levi che la memoria è soprattutto un dovere. Pertanto bisogna esigere che all'esercizio del diritto di parola e di opinione corrisponda sempre l'obbligo del rispetto etico della verità, della storia e della memoria incancellabile dei sommersi e del sacrificio immane di rammemorazione dei salvati, perché il futuro dell'umanità non debba fare i conti con l'orrore.
I meccanismi genocidari prodotti dal totalitarismo restano sempre modelli ripetibili, cioè possono sopravvivere nel nostro presente sotto forma di tentazioni ogni qualvolta appare impossibile alleviare la miseria politica, sociale o economica in maniera degna dell'uomo.
Agata Pinnelli