Le lettere di Agata Pinnelli
L’eredità della Grande Guerra da Caporetto al Piave
Divisi dalla guerra, uniti dalla pace
martedì 3 novembre 2015
23.21
Cos'è una grande guerra?
Tucidide, il grande storico greco ci viene in aiuto.
La grandezza di una guerra è una funzione della sua estensione ed espressione dello sviluppo della società. Definì tale, rispetto alla povertà di quelle del passato, la guerra del Peloponneso, che prese il via, quando i contendenti si trovavano nel pieno fiore della loro potenza e al massimo di ogni preparativo, dalla quantità di capitali posseduti, a navi e soldati addestrati; inoltre durò molto a lungo e coinvolse tutto il mondo ellenico. È molto significativo che lo storico misuri la scala della sua guerra nei termini della sofferenza e delle distruzioni che provocò. "Questa guerra – scriveva Tucidide – si trascinò molto a lungo e tante dolorose vicende accaddero alla Grecia. Mai, tante città furono espugnate e spopolate … mai tanti esili e stragi, a causa non solo della guerra, ma anche delle discordie interne". Il dolore e le sofferenze arrecati dalle "grandi guerre" in tale abbondanza meritano ben più di una riflessione morale. Secondo Eric Leed, studioso degli aspetti antropologici del 1° conflitto mondiale, è proprio per effetto delle sofferenze portate che una Grande Guerra si diffonde geograficamente coinvolgendo intere popolazioni. Il dolore fissa la memoria, le offese subite diventano la sorgente dell'individuo e fanno sopravvivere questo tipo di conflitto nella coscienza di sé delle generazioni che seguono a una "grande guerra". Secondo queste considerazioni la nostra può essere definita una Grande Guerra, certamente non una buona guerra. L'esplosione demografica della fine del XIX secolo rese disponibile una quantità prima impensabile di carne da macello che fu addestrata e spedita su campi di battaglia grazie ai sistemi di coscrizione universale e obbligatoria; il nuovo sistema economico industriale, grazie all'accumulo di un elevato "capitale", rese disponibili le sue immense risorse per lo sforzo militare. La brutale estensione della nostra guerra fu una sorpresa anche per quella generazione che era cresciuta in mezzo allo sviluppo dell'industrializzazione, certamente per Tucidide, sarebbe risultata qualcosa di inconcepibile, perciò proprio in base ai suoi criteri di analisi, risulta che la nostra guerra fu più "grande" della sua, ciò reso più vero ed evidente proprio sulla base delle sofferenze che arrecò. Infatti la guerra sulla porta di casa era impossibile da immaginare: il secolo si era aperto con l'esibizione di ottimismo della Grande Esposizione Universale di Parigi del 1900 e con lo sfarzo spensierato della Bella Epoque; nel cuore delle persone si era radicata una fiducia incrollabile nella potenza del progresso scientifico e tecnologico; il benessere, nell'idea di molti, non era solo destinato alle classi agiate; la scienza sembrava apparire la "panacea" di qualsiasi male, ormai per sempre piegata al servizio dell'uomo e faceva nascere nei cuori di coloro che occupavano un ruolo marginale nella società, una inedita idea di riscatto. La grande Esposizione Internazionale di Parigi diveniva il simbolo della celebrazione del nuovo secolo, dove ogni Stato mostrava al mondo la propria potenza nell'ambito della innovazione tecnologica, industriale, scientifica nonché dell'opulenza. In questo mondo luminoso, abbagliante crescono i semi del nazionalismo, si rafforzano le visioni intellettuali che spingono al conflitto, vedendolo come un qualcosa di necessario, un motore di rigenerazione collettiva, un cataclisma purificatore. "La guerra futura – affermava lungimirante Jean de Bloch, 1897 – non avrà risolto neppure le divisioni e le tensioni tra le nazioni europee, né avrà liberato l'Europa dalle questioni che la tormentano e che saranno causa della guerra stessa… Una cosa è certa: una futura guerra europea sconvolgerà tutto il continente …".
Infatti tutti quelli che si erano cullati nel sogno di una società perfetta sarebbero stati costretti a svegliarsi nel fango della trincea, coinvolti in un conflitto che avrebbe generato il più alto numero di vittime che l'Europa avesse mai visto. "Tutti avevano la faccia del Cristo nella livida aureola dell'elmetto. Tutti portavano l'insegna del supplizio nella croce della baionetta. E nelle tasche il pane dell'Ultima Cena e nella gola il pianto dell'ultimo addio" (dai luoghi della memoria). Si, questa fu la comune sofferenza e la sorte di moltissimi nostri fanti, catapultati in una guerra che non capivano, in un territorio geografico impervio, specialmente ai nostri contadini del Sud abituati a lavorare il loro campo in spazi aperti, soleggiati, non soggetti ad un clima ostile. Lo testimonia una breve ricostruzione storica suffragata da alcuni documenti rintracciati, dell'esperienza bellica vissuta da un nostro concittadino Pinnelli Michele, a cui finalmente si è dato un volto esperienziale da quando è partito in guerra, senza essere più tornato dalla sua famiglia, che non ha potuto scrivere le ultime pagine della sua vita nella memoria familiare e soprattutto cittadina, dove è soltanto un nome, un volto senza racconto, "un milite ignoto", fra tante migliaia che la guerra ha regalato. Fu reclutato nel distretto di Barletta, classe 1893, assegnato al 2° Reggimento Fanteria della Brigata Re. Dopo qualche mese per un'infezione malarica fu considerato rivedibile. A guarigione avvenuta fu arruolato nella classe di leva 1894 e assegnato al 35° Reggimento Fanteria della Brigata Pistoia, fu inviato al confine orientale lungo la linea del fiume Isonzo, che fu teatro di numerose battaglie cruente (undici per la precisione, più la tragica battaglia di Caporetto). Nel 1915 tra la seconda metà di ottobre e il 10 dicembre fu coinvolto nella terza e quarta battaglia dell'Isonzo durante le quali furono attaccate le posizioni di Podgora fra Calvario – Cappelletta. Vengono condotti decisi assalti che permettono di irrompere nelle trincee nemiche, che furono prese e perdute più volte nel corso del combattimento dal tiro violento della artiglieria nemica. Fra il 10 Novembre e il 10 Dicembre con azione metodica e tenace si tenta di nuovo di avanzare, sgretolando gradatamente le difese nemiche. Ma malgrado lo spirito di sacrificio, le truppe stanche della lotta che dura ininterrotta da ottobre, avversata da condizioni atmosferiche pessime, conseguono solo lievi progressi, dopo aver sacrificato complessivamente nel combattimento della Cappelletta 4000 uomini. Così dopo un periodo di riordinamento la Brigata rientra in linea ad Oslavia. In questa ricognizione si persero le sue tracce e ritenuto disperso come da dichiarazione di irreperibilità del 35° Reggimento Fanteria. Riappaiono le sue tracce nel 2° Reggimento a cui era stato assegnato inizialmente come classe 1893, stanziato sempre sulla linea del medio Isonzo, l'altopiano della Bainsizza, ora in territorio sloveno.
Correva l'anno 1917, anno cruciale non solo per la sua vita, ma anche per altri moltissimi fanti e per tutta la nazione.Il 25 ottobre, scatenatosi l'offensiva nemica, che porta l'esercito alle giornate di Caporetto, la Brigata Re (costituita dal 1° e 2° Reggimento le cui bandiere furono decorate di medaglia d'argento al valor militare) riceve l'ordine di iniziare il ripiegamento; il 2° Reggimento di cui il nostro concittadino faceva parte, si schiera quale retroguardia del Corpo d'armata sulla terza linea Baska – Kobilek con quattro battaglioni, lasciando gli altri due battaglioni in riserva. I suoi fanti sostengono aspri combattimenti per assolvere a qualunque costo il loro compito, reso particolarmente difficile e gravoso dal nemico che incalza in forze. Due battaglioni del 2° Reggimento, combattendo in modo mirabile, si oppongono sino a tarda sera all'avanzata dell'avversario e rendono col loro sacrificio agevole il passaggio dell'Isonzo ai reparti ripieganti, finché accerchiati da forze rilevanti vengono in gran parte catturati. Nei giorni tra il 25 – 26 (ottobre) il nostro concittadino, caporale maggiore, Pinnelli Michele, viene ferito durante il combattimento da una pallottola di fucile alla fronte che provocò poi la sua morte. Muore il 26 ottobre sul monte Kobilek. Aveva solo ventiquattro anni. Fu sepolto nel cimitero di Bate, oggi territorio sloveno, come testimoniato dal tenente, aspirante medico, dal comandante della compagnia, tenente Bevilacqua Ugo e dal comandante del Battaglione, capitano Grisi. Da soldato identificato, a guerra finita, diventò ignoto durante la traslazione dei corpi dal cimitero di Bate all'ossario di Oslavia, un monumentale edificio sito a Gorizia in cui i resti di circa 20 mila morti noti sono conservati lungo le pareti delle quattro torri e altre 37 mila corpi senza nome, tra cui il nostro concittadino, tumulati in tre ossari al centro delle tre torri laterali. Il fante Pinnelli Michele finalmente è tornato a casa con una identità non più relegata soltanto in un quadro attestante le numerosissime vittime della nostra città, conservato nella sede dell'Associazione Bersaglieri. Attraverso le lettere di altri fanti, accomunati al nostro concittadino da una sorte comune, possiamo percepire anche la sua voce di paura della morte, di denuncia di un sistema gerarchico e opprimente come quello militare, di protesta, rivolta a demolire l'immagine del soldato contadino disciplinato, obbediente, fiducioso nei propri superiori e pertanto capace di adattarsi all'orrore della guerra e di accettarne le condizioni con rassegnazione, a vantaggio di un soldato non rassegnato, né passivo, animato da una profonda ribellione interiore, che spesso veniva soffocata, quando con tragica chiarezza si combatteva per salvaguardare la famiglia, la propria casa, il proprio territorio, la propria identità di fronte al rischio dell'oppressione straniera.
"Ora senta la civiltà della nostra bella Italia gli dirò che noi siamo trattati come cani ed in servizio siamo in tutte lore. Quando ripenzo mi si spezza il quore, trovandomi nei pianti e nei dolori, gli dirò che fra gli morti, cioè i nostri fratelli, passeggiamo come passeggiare sopra gli sassi di un fiume, questa è la civiltà che a la nostra Italia".
"[…] Povera nostra gioventù! … Che peccato abbiamo commesso? Che dobbiamo avere contro ai nostri nemici? Mentre che loro non hanno colpe come noi! […] Il piccolo avanzamento che abbiamo conquistato si tratta di pochi metri di terreno, ma tremo di scriverlo per la terribile carneficina che ha potuto spargere … Poveri nostri fratelli parevano stritolati come se fossero carne di belve feroci, come possiamo avere più il coraggio di andare avanti vedendo queste barbarie contro la nostra cara ed amata gioventù!".
"[…] arrivato l'inverno sempre pioveva, abbagniato e freddo, fu triste male sempre allaria aperto meglio morire!" (un reduce canosino, Francesco Gerardo Casamassima, classe 1896).
Non c'è nulla da commentare! Solo farne una religiosa memoria proiettandoci in un futuro di pace, obiettivo che deve riempire il nostro presente di impegno, di solidarietà, di lavoro, di scommesse per la salvaguardia della Vita, il bene, il dono più grande che Dio ci ha affidato. Il 1917, l'anno fatidico per il nostro concittadino, ma anche per tutti gli italiani, fu caratterizzato da una grave sconfitta: Caporetto, in cui una forza massiccia di uomini, armati di tutto punto come nessun altro esercito italiano lo era mai stato, aveva cessato bruscamente di combattere, permettendo agli austro – ungarici, rafforzati dall'arrivo di un contingente tedesco, di rompere la linea del nostro fronte orientale, con la conseguente invasione del territorio del Friuli Venezia Giulia. La responsabilità fu addossata, calunniosamente secondo i Supremi Comandi, alla mancata resistenza dei nostri reparti che si erano arresi senza combattere al nemico. Tale sconfitta di fronte all'offensiva nemica non era soltanto un evento militare, ma una tragedia morale: la rotta era rapidamente diventata ingovernabile. La rottura del fronte determinò il dramma del Friuli: cominciarono le migrazioni di tantissimi profughi civili; i saccheggi, le depredazioni dilagarono dappertutto ad opera sia di sbandati italiani in ritirata, sia da molti reparti combattenti rimasti senza cibo, sia dalle truppe nemiche che completarono l'opera di violenze comportandosi come Lanzichenecchi del XX secolo. La popolazione non partecipò ai combattimenti, ma aiutò come potette le truppe italiane, prendendosi cura dei feriti (anche nemici), nascondendo i soldati che tentavano di sfuggire alla prigionia, distribuendo anche il poco cibo che avevano. Furono questi in ordine di tempo i primi partigiani d'Italia, fu un dato riconosciuto da tutti che indistintamente l'ammirarono e l'esaltarono, poiché senza alcun colore era rivolto ad un unico bene: la lotta contro lo straniero che incalzava la Patria, la quale per fortuna non contava allora che un partito, quello degli italiani. Caporetto dimostrò che i tedeschi, quando giunsero sul fronte italiano, erano già addestrati a fare una guerra diversa da quella che era stata combattuta fino agli inizi del 17, che i nostri comandi tenacemente continuavano ad applicare per superbia autoritaria e pigrizia intellettuale. Il nostro fronte cedette quando i soldati si scoprirono impreparati a combattere contro un nemico che usava metodi nuovi, la cosiddetta tattica elastica che lasciava maggiore autonomia ai comandanti dei vari reparti.
Caporetto racchiude un'altra verità: a poche settimane dalla rotta, l'esercito ritrovò fiducia in se stesso e combattè valorosamente sul Grappa e poi sul Piave sbarrando l'avanzata nemica e fu pronto nella battaglia del 1918 a Vittorio Veneto che decretò la vittoria. Il soldato italiano sembrò irriconoscibile e ciò non fu dovuto ad incitamenti patriottici, ma ad una rivoluzione spontanea di autoorganizzazione stimolata dall'esperienza sul campo. Secondo Mario Silvestri, storiografo della Grande Guerra, la "Storia mai potrà disconoscere che il soldato italiano non per virtù di provvedimenti di Comando o di Governo, né per favorevole rivolgimento di situazioni militari, ma da sé e da solo, ben inteso sotto i suoi comandanti diretti di unità e reparti, riprese la sua coscienza morale e il suo valore istantaneamente alla prova immediata di una lunga e sanguinosa battaglia per le truppe in linea e al controllo immediato di una rapida e salda ricostituzione per le truppe sbandate dal rovescio". Questo vale anche per noi oggi, il nostro paese è capace di sorprendenti rivincite di fronte alle battaglie che siamo chiamati a combattere, da quella della corruzione a quella del lavoro e della crisi economica. Queste diventano l'Italia Caporetto, quando a causa dell'ignoranza, della pigrizia si persevera nel meccanismo di scoraggiamento, di inutilità delle proprie azioni, che provoca l'assenteismo, il disinteresse verso le Istituzioni nazionali ed europee, nonché l'assenza di volontà nel contribuire alla rinascita del paese, a fortificare la spiritualità valoriale nazionale.
Dalla memoria della Grande Guerra percepiamo uno stimolo a vivere con coraggio la nostra resistenza sul Grappa e sul Piave per dare un nuovo volto all'Italia attraverso l'Europa, la via maestra per sconfiggere i pericolosi nazionalismi nascenti e proiettarsi concretamente alle sfide emerse dall'Expo. L'esposizione di Milano è stata una vetrina luminosa di competizione mondiale nella innovazione scientifica e tecnologica sulla cultura del cibo, del rispetto dell'ambiente e dell'ecosistema, della cooperazione, dello sviluppo sostenibile, per assicurare il diritto di ogni uomo ad una buona nutrizione, traguardo indispensabile per costruire la Pace, non come l'Expo di Parigi fondata sulla esposizione della potenza economica e tecnologica di una nazione. Infatti la fame è un focolaio di conflitti armati in varie parti del mondo, che fanno proliferare eccidi, spopolamenti, terrorismo, migrazioni … I nuovi rigurgiti nazionalistici e populisti non possono essere sottovalutati e coperti dalla luce abbagliante di quanto abbiamo visto in questa esposizione, perché un eventuale disatteso impegno concreto potrebbe essere molto pericoloso per il futuro della Umanità.
La memoria della Grande Guerra ce lo insegna con quanto è accaduto dopo l'Expo di Parigi.
Agata Pinnelli
Tucidide, il grande storico greco ci viene in aiuto.
La grandezza di una guerra è una funzione della sua estensione ed espressione dello sviluppo della società. Definì tale, rispetto alla povertà di quelle del passato, la guerra del Peloponneso, che prese il via, quando i contendenti si trovavano nel pieno fiore della loro potenza e al massimo di ogni preparativo, dalla quantità di capitali posseduti, a navi e soldati addestrati; inoltre durò molto a lungo e coinvolse tutto il mondo ellenico. È molto significativo che lo storico misuri la scala della sua guerra nei termini della sofferenza e delle distruzioni che provocò. "Questa guerra – scriveva Tucidide – si trascinò molto a lungo e tante dolorose vicende accaddero alla Grecia. Mai, tante città furono espugnate e spopolate … mai tanti esili e stragi, a causa non solo della guerra, ma anche delle discordie interne". Il dolore e le sofferenze arrecati dalle "grandi guerre" in tale abbondanza meritano ben più di una riflessione morale. Secondo Eric Leed, studioso degli aspetti antropologici del 1° conflitto mondiale, è proprio per effetto delle sofferenze portate che una Grande Guerra si diffonde geograficamente coinvolgendo intere popolazioni. Il dolore fissa la memoria, le offese subite diventano la sorgente dell'individuo e fanno sopravvivere questo tipo di conflitto nella coscienza di sé delle generazioni che seguono a una "grande guerra". Secondo queste considerazioni la nostra può essere definita una Grande Guerra, certamente non una buona guerra. L'esplosione demografica della fine del XIX secolo rese disponibile una quantità prima impensabile di carne da macello che fu addestrata e spedita su campi di battaglia grazie ai sistemi di coscrizione universale e obbligatoria; il nuovo sistema economico industriale, grazie all'accumulo di un elevato "capitale", rese disponibili le sue immense risorse per lo sforzo militare. La brutale estensione della nostra guerra fu una sorpresa anche per quella generazione che era cresciuta in mezzo allo sviluppo dell'industrializzazione, certamente per Tucidide, sarebbe risultata qualcosa di inconcepibile, perciò proprio in base ai suoi criteri di analisi, risulta che la nostra guerra fu più "grande" della sua, ciò reso più vero ed evidente proprio sulla base delle sofferenze che arrecò. Infatti la guerra sulla porta di casa era impossibile da immaginare: il secolo si era aperto con l'esibizione di ottimismo della Grande Esposizione Universale di Parigi del 1900 e con lo sfarzo spensierato della Bella Epoque; nel cuore delle persone si era radicata una fiducia incrollabile nella potenza del progresso scientifico e tecnologico; il benessere, nell'idea di molti, non era solo destinato alle classi agiate; la scienza sembrava apparire la "panacea" di qualsiasi male, ormai per sempre piegata al servizio dell'uomo e faceva nascere nei cuori di coloro che occupavano un ruolo marginale nella società, una inedita idea di riscatto. La grande Esposizione Internazionale di Parigi diveniva il simbolo della celebrazione del nuovo secolo, dove ogni Stato mostrava al mondo la propria potenza nell'ambito della innovazione tecnologica, industriale, scientifica nonché dell'opulenza. In questo mondo luminoso, abbagliante crescono i semi del nazionalismo, si rafforzano le visioni intellettuali che spingono al conflitto, vedendolo come un qualcosa di necessario, un motore di rigenerazione collettiva, un cataclisma purificatore. "La guerra futura – affermava lungimirante Jean de Bloch, 1897 – non avrà risolto neppure le divisioni e le tensioni tra le nazioni europee, né avrà liberato l'Europa dalle questioni che la tormentano e che saranno causa della guerra stessa… Una cosa è certa: una futura guerra europea sconvolgerà tutto il continente …".
Infatti tutti quelli che si erano cullati nel sogno di una società perfetta sarebbero stati costretti a svegliarsi nel fango della trincea, coinvolti in un conflitto che avrebbe generato il più alto numero di vittime che l'Europa avesse mai visto. "Tutti avevano la faccia del Cristo nella livida aureola dell'elmetto. Tutti portavano l'insegna del supplizio nella croce della baionetta. E nelle tasche il pane dell'Ultima Cena e nella gola il pianto dell'ultimo addio" (dai luoghi della memoria). Si, questa fu la comune sofferenza e la sorte di moltissimi nostri fanti, catapultati in una guerra che non capivano, in un territorio geografico impervio, specialmente ai nostri contadini del Sud abituati a lavorare il loro campo in spazi aperti, soleggiati, non soggetti ad un clima ostile. Lo testimonia una breve ricostruzione storica suffragata da alcuni documenti rintracciati, dell'esperienza bellica vissuta da un nostro concittadino Pinnelli Michele, a cui finalmente si è dato un volto esperienziale da quando è partito in guerra, senza essere più tornato dalla sua famiglia, che non ha potuto scrivere le ultime pagine della sua vita nella memoria familiare e soprattutto cittadina, dove è soltanto un nome, un volto senza racconto, "un milite ignoto", fra tante migliaia che la guerra ha regalato. Fu reclutato nel distretto di Barletta, classe 1893, assegnato al 2° Reggimento Fanteria della Brigata Re. Dopo qualche mese per un'infezione malarica fu considerato rivedibile. A guarigione avvenuta fu arruolato nella classe di leva 1894 e assegnato al 35° Reggimento Fanteria della Brigata Pistoia, fu inviato al confine orientale lungo la linea del fiume Isonzo, che fu teatro di numerose battaglie cruente (undici per la precisione, più la tragica battaglia di Caporetto). Nel 1915 tra la seconda metà di ottobre e il 10 dicembre fu coinvolto nella terza e quarta battaglia dell'Isonzo durante le quali furono attaccate le posizioni di Podgora fra Calvario – Cappelletta. Vengono condotti decisi assalti che permettono di irrompere nelle trincee nemiche, che furono prese e perdute più volte nel corso del combattimento dal tiro violento della artiglieria nemica. Fra il 10 Novembre e il 10 Dicembre con azione metodica e tenace si tenta di nuovo di avanzare, sgretolando gradatamente le difese nemiche. Ma malgrado lo spirito di sacrificio, le truppe stanche della lotta che dura ininterrotta da ottobre, avversata da condizioni atmosferiche pessime, conseguono solo lievi progressi, dopo aver sacrificato complessivamente nel combattimento della Cappelletta 4000 uomini. Così dopo un periodo di riordinamento la Brigata rientra in linea ad Oslavia. In questa ricognizione si persero le sue tracce e ritenuto disperso come da dichiarazione di irreperibilità del 35° Reggimento Fanteria. Riappaiono le sue tracce nel 2° Reggimento a cui era stato assegnato inizialmente come classe 1893, stanziato sempre sulla linea del medio Isonzo, l'altopiano della Bainsizza, ora in territorio sloveno.
Correva l'anno 1917, anno cruciale non solo per la sua vita, ma anche per altri moltissimi fanti e per tutta la nazione.Il 25 ottobre, scatenatosi l'offensiva nemica, che porta l'esercito alle giornate di Caporetto, la Brigata Re (costituita dal 1° e 2° Reggimento le cui bandiere furono decorate di medaglia d'argento al valor militare) riceve l'ordine di iniziare il ripiegamento; il 2° Reggimento di cui il nostro concittadino faceva parte, si schiera quale retroguardia del Corpo d'armata sulla terza linea Baska – Kobilek con quattro battaglioni, lasciando gli altri due battaglioni in riserva. I suoi fanti sostengono aspri combattimenti per assolvere a qualunque costo il loro compito, reso particolarmente difficile e gravoso dal nemico che incalza in forze. Due battaglioni del 2° Reggimento, combattendo in modo mirabile, si oppongono sino a tarda sera all'avanzata dell'avversario e rendono col loro sacrificio agevole il passaggio dell'Isonzo ai reparti ripieganti, finché accerchiati da forze rilevanti vengono in gran parte catturati. Nei giorni tra il 25 – 26 (ottobre) il nostro concittadino, caporale maggiore, Pinnelli Michele, viene ferito durante il combattimento da una pallottola di fucile alla fronte che provocò poi la sua morte. Muore il 26 ottobre sul monte Kobilek. Aveva solo ventiquattro anni. Fu sepolto nel cimitero di Bate, oggi territorio sloveno, come testimoniato dal tenente, aspirante medico, dal comandante della compagnia, tenente Bevilacqua Ugo e dal comandante del Battaglione, capitano Grisi. Da soldato identificato, a guerra finita, diventò ignoto durante la traslazione dei corpi dal cimitero di Bate all'ossario di Oslavia, un monumentale edificio sito a Gorizia in cui i resti di circa 20 mila morti noti sono conservati lungo le pareti delle quattro torri e altre 37 mila corpi senza nome, tra cui il nostro concittadino, tumulati in tre ossari al centro delle tre torri laterali. Il fante Pinnelli Michele finalmente è tornato a casa con una identità non più relegata soltanto in un quadro attestante le numerosissime vittime della nostra città, conservato nella sede dell'Associazione Bersaglieri. Attraverso le lettere di altri fanti, accomunati al nostro concittadino da una sorte comune, possiamo percepire anche la sua voce di paura della morte, di denuncia di un sistema gerarchico e opprimente come quello militare, di protesta, rivolta a demolire l'immagine del soldato contadino disciplinato, obbediente, fiducioso nei propri superiori e pertanto capace di adattarsi all'orrore della guerra e di accettarne le condizioni con rassegnazione, a vantaggio di un soldato non rassegnato, né passivo, animato da una profonda ribellione interiore, che spesso veniva soffocata, quando con tragica chiarezza si combatteva per salvaguardare la famiglia, la propria casa, il proprio territorio, la propria identità di fronte al rischio dell'oppressione straniera.
"Ora senta la civiltà della nostra bella Italia gli dirò che noi siamo trattati come cani ed in servizio siamo in tutte lore. Quando ripenzo mi si spezza il quore, trovandomi nei pianti e nei dolori, gli dirò che fra gli morti, cioè i nostri fratelli, passeggiamo come passeggiare sopra gli sassi di un fiume, questa è la civiltà che a la nostra Italia".
"[…] Povera nostra gioventù! … Che peccato abbiamo commesso? Che dobbiamo avere contro ai nostri nemici? Mentre che loro non hanno colpe come noi! […] Il piccolo avanzamento che abbiamo conquistato si tratta di pochi metri di terreno, ma tremo di scriverlo per la terribile carneficina che ha potuto spargere … Poveri nostri fratelli parevano stritolati come se fossero carne di belve feroci, come possiamo avere più il coraggio di andare avanti vedendo queste barbarie contro la nostra cara ed amata gioventù!".
"[…] arrivato l'inverno sempre pioveva, abbagniato e freddo, fu triste male sempre allaria aperto meglio morire!" (un reduce canosino, Francesco Gerardo Casamassima, classe 1896).
Non c'è nulla da commentare! Solo farne una religiosa memoria proiettandoci in un futuro di pace, obiettivo che deve riempire il nostro presente di impegno, di solidarietà, di lavoro, di scommesse per la salvaguardia della Vita, il bene, il dono più grande che Dio ci ha affidato. Il 1917, l'anno fatidico per il nostro concittadino, ma anche per tutti gli italiani, fu caratterizzato da una grave sconfitta: Caporetto, in cui una forza massiccia di uomini, armati di tutto punto come nessun altro esercito italiano lo era mai stato, aveva cessato bruscamente di combattere, permettendo agli austro – ungarici, rafforzati dall'arrivo di un contingente tedesco, di rompere la linea del nostro fronte orientale, con la conseguente invasione del territorio del Friuli Venezia Giulia. La responsabilità fu addossata, calunniosamente secondo i Supremi Comandi, alla mancata resistenza dei nostri reparti che si erano arresi senza combattere al nemico. Tale sconfitta di fronte all'offensiva nemica non era soltanto un evento militare, ma una tragedia morale: la rotta era rapidamente diventata ingovernabile. La rottura del fronte determinò il dramma del Friuli: cominciarono le migrazioni di tantissimi profughi civili; i saccheggi, le depredazioni dilagarono dappertutto ad opera sia di sbandati italiani in ritirata, sia da molti reparti combattenti rimasti senza cibo, sia dalle truppe nemiche che completarono l'opera di violenze comportandosi come Lanzichenecchi del XX secolo. La popolazione non partecipò ai combattimenti, ma aiutò come potette le truppe italiane, prendendosi cura dei feriti (anche nemici), nascondendo i soldati che tentavano di sfuggire alla prigionia, distribuendo anche il poco cibo che avevano. Furono questi in ordine di tempo i primi partigiani d'Italia, fu un dato riconosciuto da tutti che indistintamente l'ammirarono e l'esaltarono, poiché senza alcun colore era rivolto ad un unico bene: la lotta contro lo straniero che incalzava la Patria, la quale per fortuna non contava allora che un partito, quello degli italiani. Caporetto dimostrò che i tedeschi, quando giunsero sul fronte italiano, erano già addestrati a fare una guerra diversa da quella che era stata combattuta fino agli inizi del 17, che i nostri comandi tenacemente continuavano ad applicare per superbia autoritaria e pigrizia intellettuale. Il nostro fronte cedette quando i soldati si scoprirono impreparati a combattere contro un nemico che usava metodi nuovi, la cosiddetta tattica elastica che lasciava maggiore autonomia ai comandanti dei vari reparti.
Caporetto racchiude un'altra verità: a poche settimane dalla rotta, l'esercito ritrovò fiducia in se stesso e combattè valorosamente sul Grappa e poi sul Piave sbarrando l'avanzata nemica e fu pronto nella battaglia del 1918 a Vittorio Veneto che decretò la vittoria. Il soldato italiano sembrò irriconoscibile e ciò non fu dovuto ad incitamenti patriottici, ma ad una rivoluzione spontanea di autoorganizzazione stimolata dall'esperienza sul campo. Secondo Mario Silvestri, storiografo della Grande Guerra, la "Storia mai potrà disconoscere che il soldato italiano non per virtù di provvedimenti di Comando o di Governo, né per favorevole rivolgimento di situazioni militari, ma da sé e da solo, ben inteso sotto i suoi comandanti diretti di unità e reparti, riprese la sua coscienza morale e il suo valore istantaneamente alla prova immediata di una lunga e sanguinosa battaglia per le truppe in linea e al controllo immediato di una rapida e salda ricostituzione per le truppe sbandate dal rovescio". Questo vale anche per noi oggi, il nostro paese è capace di sorprendenti rivincite di fronte alle battaglie che siamo chiamati a combattere, da quella della corruzione a quella del lavoro e della crisi economica. Queste diventano l'Italia Caporetto, quando a causa dell'ignoranza, della pigrizia si persevera nel meccanismo di scoraggiamento, di inutilità delle proprie azioni, che provoca l'assenteismo, il disinteresse verso le Istituzioni nazionali ed europee, nonché l'assenza di volontà nel contribuire alla rinascita del paese, a fortificare la spiritualità valoriale nazionale.
Dalla memoria della Grande Guerra percepiamo uno stimolo a vivere con coraggio la nostra resistenza sul Grappa e sul Piave per dare un nuovo volto all'Italia attraverso l'Europa, la via maestra per sconfiggere i pericolosi nazionalismi nascenti e proiettarsi concretamente alle sfide emerse dall'Expo. L'esposizione di Milano è stata una vetrina luminosa di competizione mondiale nella innovazione scientifica e tecnologica sulla cultura del cibo, del rispetto dell'ambiente e dell'ecosistema, della cooperazione, dello sviluppo sostenibile, per assicurare il diritto di ogni uomo ad una buona nutrizione, traguardo indispensabile per costruire la Pace, non come l'Expo di Parigi fondata sulla esposizione della potenza economica e tecnologica di una nazione. Infatti la fame è un focolaio di conflitti armati in varie parti del mondo, che fanno proliferare eccidi, spopolamenti, terrorismo, migrazioni … I nuovi rigurgiti nazionalistici e populisti non possono essere sottovalutati e coperti dalla luce abbagliante di quanto abbiamo visto in questa esposizione, perché un eventuale disatteso impegno concreto potrebbe essere molto pericoloso per il futuro della Umanità.
La memoria della Grande Guerra ce lo insegna con quanto è accaduto dopo l'Expo di Parigi.
Agata Pinnelli