Un Paese di Poesia
ODE A CANOSA: Mille storie ancora aleggiano nel cielo
La lirica storica per eccellenza del poeta Sante Valentino
domenica 28 luglio 2024
8.13
A poche ore dalla delibera di iscrizione della "Via Appia. Regina Viarum" nella Lista del Patrimonio Mondiale, il 60esimo sito italiano riconosciuto dall'UNESCO, il poeta Sante Valentino presenta "ODE A CANOSA", nell'ambito della rubrica "Un Paese di Poesia" di Canosaweb, primo portale cittadino in rete. "ODE A CANOSA" è la "nostra" lirica storica per eccellenza, composta di ben 130 versi in linguaggio aulico ed è indirizzata a tutti i canosini del mondo perché "non dimentichino le proprie radici- scrive Sante Valentino da Roma - e la loro storia ricordando, con vero spirito di appartenenza, di essere figli di un paese che per origine e per fama è stato uno dei più antichi e nobili di Puglia con l'augurio di rivederlo presto risorgere e proiettarsi verso nuovi orizzonti di rinascita e di nuove gloriose affermazioni." Di buon auspicio per Canosa di Puglia lungo la Via Appia, Patrimonio dell'UNESCO, per millenni da mercanti e pellegrini, eserciti e re, aristocratici e artisti, in un caleidoscopio di personaggi che hanno disegnato l'immagine della romanità nel mondo. La Via Appia divenne da subito asse di comunicazioni commerciali e culturali, modello delle successive vie pubbliche romane e, in un certo senso, origine del complesso sistema viario dell'Impero, alla base dell'attuale rete di comunicazione del bacino del Mediterraneo.
ODE A CANOSA
Mille storie ancora aleggiano nel cielo
mille leggende sulle nebbie dei secoli,
a nuova speme spiragli apre il vento
che da serrati claustri sovente torna
oscuri sortilegi impietosi a diradare
a esortare indomo la terra degli ipogei.
Dimentica dorme l'ellenica Kanysion
tra i sette piccoli colli distesa
e le bianche scalinate di pietra
che altere convergono e ripide
agli antichi ruderi delle sei torri
un dì svettanti sul sito dell'agorà.
Anche le porte un tempo dischiuse
non s'aprono al sole dell'auriga
che ora più non irrompe radioso
a rischiarare la famosa acropoli
e le gloriose vestigia dei padri
sepolte dalla cupa notte funesta.
E lì, mesto, il superstite maniero
il volto porge alla vetusta piazza
dei "Quaranta martiri" un dì nomata
ad indicare l'ardimento e la gran fede
di coloro che a Sebaste s'immolarono
in nome del buon Dio dei cristiani.
E come allora strenuo regge e si oppone
all'ingiuria del tempo ed al fato ostile
una preghiera levando e la sua voce
a raccontare di un mito, a rimembrare
del tempo dei cori che salivano al cielo
e delle vele che sul fiume navigavano.
Ebbro il mio petto d'orgoglio ricolmo
di millenni e millenni una storia ascolta
dei primordiali abitatori, umili pastori,
e dei Pelasgi che dall'Egeo qui giunti
insigni architetti furono di robuste mura
che l'invitto colle resero inespugnabile.
E qui di greggi e di pregiate lane
prodigo fu il cielo e l'alma terra
e qui da Troia giunse e dall'Etolia
il nobile Diomede che la rocca ergeva
a baluardo del tempo e dei secoli,
ad additare ai posteri il grande sogno.
Tutta riversò il principe acheo tutta tradusse
la proverbiale saggezza della madre Grecia
e templi sorsero a Giove e agli dei dell'olimpo,
ai lari e ai penati, sì che la città tutta rifulse
e colma fu di preziose lane e splenditi vasi
e di monete che di bronzo e d'argento coniava.
E fu sussulto e fremito di vita ellenica
che nobiltà d'animo e d'intelletto addussero
e i destini dei padri mirabilmente diressero
così che al tempo dell'antico sovrano Anio
il console Plauzio, da tanto splendore stupito,
nel 318 A.C. augusto titolo le riconobbe.
Né mai la federata polis la sua fede tradì,
che i consoli di Roma ricetto qui trovarono
ed a lei vennero dopo la disfatta di Canne,
come il generale sannita Trebazio venne
allorché sconfitto dal console Cosconio.
Ma per ribellione nella guerra sociale
l'inclito sito subì il castigo dell'Urbe
che, riconoscente, in parte lo risparmiò
mantenendogli l'appellativo di"municipio".
La sua ascesa però seguitava irrefrenabile
e grande fu il suo splendore nell'età romana
con Erode Attico che ne saziò l'atavica sete,
con Traiano che sul fiume un ponte costruì
così che il popolo grato un arco a lui innalzò,
ed un grande anfiteatro lei ebbe e sontuose terme
che Venusto, il correttore, l'Apulia di qui diresse.
E molti furono i popoli antichi che qui vennero:
i Dauni, gli Etoli, e i Romani; molti i barbari:
Ostrogoti, goti, Longobardi, Bizantini, Saraceni,
ed ancora Normanni, Svevi, Spagnoli e francesi,
molti i principi e i baroni: gli Orsini, i De Ursinis,
i Grimaldi, gli Affaitati e Capece Minutolo.
Tanti pure i terremoti e le mortali pestilenze
e tante le avversità del tempo e della storia
che la vetusta chiesa di Puglia affrontava
dal suo protovescovo e martire San Felice,
all'eccelso suo prelato che tanto lustro le diede,
a Pietro Longobardo ed Ursone l'ultimo pastore.
Ma fu lui, San Sabino, il padre vero della città,
fulgido arcobaleno nei concili d'oriente,
figlio veggente e restauratore della chiesa
che la mano sanguinaria fermò di Totila
ed il nobile principe di Antiochia invitò
al sonno eterno presso la sua dimora.
E inesorabile rovinava l'augusta Canusium,
l'inclito suo fasto dal fosco cielo oscurato
finché l'aquila sveva, che "figlio di Puglia"
onorò di chiamarsi, non giunse provvida
a ridare vigore e prestigio al nostro castello
prima che l'altro ottagonale superbo ergeva,
enigmatico tempio della scienza e del sapere.
Poi ancora più nulla si udì di quella gloria
se non di pochi focolai a custodirne le vestigia,
ma l'ardore che i figli in petto fieri serbavano
mai fu vinto e nel nome dei grandi lottarono:
di Diomede, di Busa, di Sabino, di Boemondo
e dei decurioni che sul bronzo incisero la fama.
Ora più non si coglie il fervore delle botteghe
che il fine canusinato diedero ai consoli di Roma
e di splenditi askos riempirono i palazzi e gli ipogei,
né più s'incidono titoli, nomi e gesta sulle pietre
non più degno ornamento dei templi e delle vie.
Nulla più si rammenta della nobilissima matrona
che lo scettro alzava nel suo elegante himation:
occhi neri, labbra carnose, capelli finemente ornati;
donna prodiga e cortese che sui sentieri della storia
con saggezza il destino del popolo fiera condusse
a onore e vanto di chi un sentire ora non disdegna.
Dell'ineffabile polis millenaria, da tanti un dì temuta,
l'antico blasone giace riverso, ignobilmente offeso
dalla lunga indolenza e dall'ingiuria del tempo;
rimane solo il segno di cotanta grandezza, solo i resti
di colei che superba troneggiava e l'onore innalzava
ed i vessilli, prima che al fato ostile il passo cedeva.
Ma verrà ancora il risveglio e l'alba nuova,
risentiremo ancora il corno normanno tuonare
la riscossa a riempire d'orgoglio il petto dei figli,
e tornerà un'altra volta radioso il sole dell'auriga
a diradare quel buio profondo dell'oscura notte,
a svegliare dal lungo letargo i destini di Kanysion.
Noi diletti figli nutriti della copiosa linfa materna
con cuore unanime e d'una identità ritrovata,
al richiamo di un campanile invocante,
uniti in coro una voce ai cieli alziamo
e d'un solo grido con zelo urliamo:
"Canusium anima est…"!
Sante Valentino
ODE A CANOSA
Mille storie ancora aleggiano nel cielo
mille leggende sulle nebbie dei secoli,
a nuova speme spiragli apre il vento
che da serrati claustri sovente torna
oscuri sortilegi impietosi a diradare
a esortare indomo la terra degli ipogei.
Dimentica dorme l'ellenica Kanysion
tra i sette piccoli colli distesa
e le bianche scalinate di pietra
che altere convergono e ripide
agli antichi ruderi delle sei torri
un dì svettanti sul sito dell'agorà.
Anche le porte un tempo dischiuse
non s'aprono al sole dell'auriga
che ora più non irrompe radioso
a rischiarare la famosa acropoli
e le gloriose vestigia dei padri
sepolte dalla cupa notte funesta.
E lì, mesto, il superstite maniero
il volto porge alla vetusta piazza
dei "Quaranta martiri" un dì nomata
ad indicare l'ardimento e la gran fede
di coloro che a Sebaste s'immolarono
in nome del buon Dio dei cristiani.
E come allora strenuo regge e si oppone
all'ingiuria del tempo ed al fato ostile
una preghiera levando e la sua voce
a raccontare di un mito, a rimembrare
del tempo dei cori che salivano al cielo
e delle vele che sul fiume navigavano.
Ebbro il mio petto d'orgoglio ricolmo
di millenni e millenni una storia ascolta
dei primordiali abitatori, umili pastori,
e dei Pelasgi che dall'Egeo qui giunti
insigni architetti furono di robuste mura
che l'invitto colle resero inespugnabile.
E qui di greggi e di pregiate lane
prodigo fu il cielo e l'alma terra
e qui da Troia giunse e dall'Etolia
il nobile Diomede che la rocca ergeva
a baluardo del tempo e dei secoli,
ad additare ai posteri il grande sogno.
Tutta riversò il principe acheo tutta tradusse
la proverbiale saggezza della madre Grecia
e templi sorsero a Giove e agli dei dell'olimpo,
ai lari e ai penati, sì che la città tutta rifulse
e colma fu di preziose lane e splenditi vasi
e di monete che di bronzo e d'argento coniava.
E fu sussulto e fremito di vita ellenica
che nobiltà d'animo e d'intelletto addussero
e i destini dei padri mirabilmente diressero
così che al tempo dell'antico sovrano Anio
il console Plauzio, da tanto splendore stupito,
nel 318 A.C. augusto titolo le riconobbe.
Né mai la federata polis la sua fede tradì,
che i consoli di Roma ricetto qui trovarono
ed a lei vennero dopo la disfatta di Canne,
come il generale sannita Trebazio venne
allorché sconfitto dal console Cosconio.
Ma per ribellione nella guerra sociale
l'inclito sito subì il castigo dell'Urbe
che, riconoscente, in parte lo risparmiò
mantenendogli l'appellativo di"municipio".
La sua ascesa però seguitava irrefrenabile
e grande fu il suo splendore nell'età romana
con Erode Attico che ne saziò l'atavica sete,
con Traiano che sul fiume un ponte costruì
così che il popolo grato un arco a lui innalzò,
ed un grande anfiteatro lei ebbe e sontuose terme
che Venusto, il correttore, l'Apulia di qui diresse.
E molti furono i popoli antichi che qui vennero:
i Dauni, gli Etoli, e i Romani; molti i barbari:
Ostrogoti, goti, Longobardi, Bizantini, Saraceni,
ed ancora Normanni, Svevi, Spagnoli e francesi,
molti i principi e i baroni: gli Orsini, i De Ursinis,
i Grimaldi, gli Affaitati e Capece Minutolo.
Tanti pure i terremoti e le mortali pestilenze
e tante le avversità del tempo e della storia
che la vetusta chiesa di Puglia affrontava
dal suo protovescovo e martire San Felice,
all'eccelso suo prelato che tanto lustro le diede,
a Pietro Longobardo ed Ursone l'ultimo pastore.
Ma fu lui, San Sabino, il padre vero della città,
fulgido arcobaleno nei concili d'oriente,
figlio veggente e restauratore della chiesa
che la mano sanguinaria fermò di Totila
ed il nobile principe di Antiochia invitò
al sonno eterno presso la sua dimora.
E inesorabile rovinava l'augusta Canusium,
l'inclito suo fasto dal fosco cielo oscurato
finché l'aquila sveva, che "figlio di Puglia"
onorò di chiamarsi, non giunse provvida
a ridare vigore e prestigio al nostro castello
prima che l'altro ottagonale superbo ergeva,
enigmatico tempio della scienza e del sapere.
Poi ancora più nulla si udì di quella gloria
se non di pochi focolai a custodirne le vestigia,
ma l'ardore che i figli in petto fieri serbavano
mai fu vinto e nel nome dei grandi lottarono:
di Diomede, di Busa, di Sabino, di Boemondo
e dei decurioni che sul bronzo incisero la fama.
Ora più non si coglie il fervore delle botteghe
che il fine canusinato diedero ai consoli di Roma
e di splenditi askos riempirono i palazzi e gli ipogei,
né più s'incidono titoli, nomi e gesta sulle pietre
non più degno ornamento dei templi e delle vie.
Nulla più si rammenta della nobilissima matrona
che lo scettro alzava nel suo elegante himation:
occhi neri, labbra carnose, capelli finemente ornati;
donna prodiga e cortese che sui sentieri della storia
con saggezza il destino del popolo fiera condusse
a onore e vanto di chi un sentire ora non disdegna.
Dell'ineffabile polis millenaria, da tanti un dì temuta,
l'antico blasone giace riverso, ignobilmente offeso
dalla lunga indolenza e dall'ingiuria del tempo;
rimane solo il segno di cotanta grandezza, solo i resti
di colei che superba troneggiava e l'onore innalzava
ed i vessilli, prima che al fato ostile il passo cedeva.
Ma verrà ancora il risveglio e l'alba nuova,
risentiremo ancora il corno normanno tuonare
la riscossa a riempire d'orgoglio il petto dei figli,
e tornerà un'altra volta radioso il sole dell'auriga
a diradare quel buio profondo dell'oscura notte,
a svegliare dal lungo letargo i destini di Kanysion.
Noi diletti figli nutriti della copiosa linfa materna
con cuore unanime e d'una identità ritrovata,
al richiamo di un campanile invocante,
uniti in coro una voce ai cieli alziamo
e d'un solo grido con zelo urliamo:
"Canusium anima est…"!
Sante Valentino